The Fabelmans, il nuovo film di Steven Spielberg al cinema dal 22 dicembre, è l’approdo definitivo della carriera e della vita di un cineasta che è diventato nel tempo sinonimo e massima incarnazione vivente del cinema stesso, e che all’età di 75 ha deciso di raccontare in un lungometraggio la sua storia e quella della sua famiglia, nonché per esteso la genesi autobiografica di un talento e di un’ispirazione che l’hanno portato a a essere il più proverbiale Re Mida di Hollywood.
Samuel Fabelman (Mateo Zoryna Francis-Deford da bambino, Gabriel LaBelle da adolescente) è il primogenito di Burt (Paul Dano) e Mitzi (Michelle Williams) e ha tre sorelle minori, Reggie, Natalie e Lisa. All’età di sei anni i genitori lo portano al cinema per la prima volta: lo spettacolo di un incidente ferroviario lo turba e lo ammalia, stregandolo per sempre e accendendo in lui la fiamma ardente di una passione per la Settima Arte che non lo abbandonerà più. Per esorcizzare quel terrore, o forse semplicemente per darle una forma ancora più concreta e personale, Sammy metterà mano per la prima volta alla cinepresa di famiglia, e da quel momento non smetterà più di girare.
È un coming of age sulla carta classico, The Fabelmans, scritto dall’autore insieme al drammaturgo premio Pulitzer e suo fedele collaboratore Tony Kushner, eppure nell’ordinarietà di una famiglia americana come tante Spielberg trova a più riprese la straordinarietà dell’epica e la patina del Mito, estendendo il melodramma e il racconto di formazione agli episodi di bullismo di matrice antisemita vissuti a scuola e ai primi amori. Praticamente tutte le sequenze sono animate da un senso dello stupore al contempo accorato e sentimentale, che dà alle immagini una grana e una luce diverse da quella di qualunque altro memoir analogo.
L’aspetto più strabiliante di questo film piccolissimo ma in realtà sterminato è infatti la capacità di tenere insieme nello stesso inebriante incantesimo l’esaltazione artigianale per i filmini in Super 8 fatti in casa e le – a tratti buffe e trascinanti, a tratti dolorose e laceranti – traversie dei Fabelman, come fossero un tutto’uno, come se il cinema (ri)producesse la vita e la vita non potesse che adeguarsi e farsi essa stessa cinema.
Nel film Sammy e la sua famiglia, nella quale gioca un ruolo fondamentale anche l’irresistibile zio Bennie interpretato da Seth Rogen e che è divisa di fatto tra scienziati e artisti (il padre è ingegnere elettronico, la madre poteva diventare una grande pianista), si trasferiscono dal New Jersey prima in Arizona e poi in California in seguito alle mutate, e a suo dire migliori, condizioni lavorative del padre. Ne osserviamo i momenti privati più disparati, e molto spesso sono le stesse scene forgiate dall’occhio di Sam a guidare il nostro sguardo.
Il cinema, in The Fabelmans, filtra tutto, è onnipresente, leggiadro e insieme ingombrante, è punto di partenza e punto d’arrivo di istanze e desideri, ambizioni e pulsioni. Ogni cosa è pronta a farsi celluloide, chiamata a stemperare con dolcezza tutta la rabbia e i rimpianti del vissuto, a incantare a ripetizione, a dare un senso e a plasmare sotto la luce giusta sogni e affetti familiari (si pensi al momento, letteralmente da capogiro, di Mitzi che danza ripresa da Sam mentre i fari di un’auto la illuminano), a bagnare tutto di lacrime.
La cinefilia, quella più giusta, misurata, amorevole e accogliente, ha oggi in The Fabelmans un nuovo porto sicuro nel quale trovare calore e conforto, e al quale affidarsi con occhi e cuore colmi di gratitudine. Perché quella proposta dal film di Spielberg è una cinefilia che non è mai vissuta come condanna alla bulimia di riferimenti, al tic derivativo, alla strizzata d’occhio. Non è nemmeno la cinefilia di Dawson’s Creek, teen drama nel quale Michelle Williams era la musa più maledetta di Dawson Leery, aspirante regista per antonomasia del piccolo schermo e spielberghiano di stretta osservanza, ma una cinefilia che libera e mai imprigiona, di una nostalgia sanissima, sempre a misura d’uomo, mai tesa all’auto-commiserazione sterile e consolatoria. L’amore per il cinema è puro motore dell’immaginario, in The Fabelmans, forza ancestrale che seduce e indica la via per orientarsi in un’esistenza magari estremamente travagliata in cui ci si allontana, si divorzia, si rifiuta la psicoanalisi, ma nella quale, come dicono i Fabelman, «tutto accade per una ragione».
«Quando l’orizzonte è in basso, è interessante. Quando è in alto, è interessante. Quando è al centro, è una palla mortale», dirà alla fine del film a un Sam ormai in procinto d’iniziare la sua carriera nel cinema addirittura John Ford, «il più grande regista di tutti i tempi», autore di quel L’uomo che uccise Liberty Valance (1962) che, insieme a Il più grande spettacolo del mondo (1952) di Cecil B. De Mille, quello dell’esplosivo scontro tra convogli dal quale tutto è cominciato, è il film che più l’ha segnato in assoluto e che ha decretato che il cinema non fosse per lui «solo un hobby», come in maniera neanche troppo velata vorrebbe invece il padre. Ford è interpretato da un altro grande regista (chi è meglio non svelarlo, perché la sorpresa è totale, divertentisissima, emozionante, commovente), ed è uno dei finali più memorabili che il cinema contemporaneo possa annoverare.
Un epilogo pronto, in nome del cinema, a spostare perfino l’asse dell’orizzonte a cui tendere, a palesare senza vergogna un amore per il cinema al cospetto del quale ci si chiede perfino come si possa amarlo per davvero così tanto, ancora oggi, il cinema. Potere di Spielberg, alias Fabelman, cognome che pare davvero un parente strettissimo di «Fableman», «uomo delle fiabe», che attraverso la sua di favola ha voluto ricordarci fino a che punto siamo fatti della stessa sostanza del cinema.
Foto: Amblin Entertainment, Universal Pictures, Reliance Entertainment
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