Nel novembre del 2001, poco più che trentenne, Mohamedou Ould Slahi viene prelevato dalla sua casa in Mauritania dalle autorità locali, interrogato e trasferito in Giordania per ordine della CIA: è sospettato di aver reclutato i dirottatori di uno degli aerei dell’11 settembre. Dopo 8 mesi di interrogatori e torture, viene trasferito in Afghanistan e quindi nel famigerato centro di detenzione di Guantanamo, dove subisce ogni genere di violenza fisica e psicologica per ordine diretto del segretario della difesa Donald Rumsfeld: dopo oltre due mesi consecutivi di questo trattamento, verga di suo pugno una confessione-farsa che innesca un processo mirato a ottenere una condanna a morte.
Succede esattamente l’opposto: è addirittura il tenente colonnello Stuart Couch (nel film interpretato da Benedict Cumberbatch), incaricato di sostenere l’accusa e arrivare alla condanna, a rifiutarsi di portare avanti il caso, dopo aver letto la documentazione del trattamento riservato al prigioniero. Siamo nel 2003, ma ci vogliono altri sette anni perché un giudice americano ordini che Slahi venga liberato. Nonostante questo, in piena amministrazione Obama, Slahi resta a Guantanamo fino al 2016, dopo oltre 15 anni di sospensione dei diritti umani, senza mai essere stato accusato ufficialmente di nulla.
Prima i fatti, anche in una recensione, perché qui sono soprattutto i fatti a dar conto e ragione dell’operazione cinematografica. Dopo The Report (su Amazon Prime Video dov’è approdato il 3 giugno anche The Mauritanian, recuperatelo), il cinema americano torna a elaborare nella forma tradizionale del legal drama il trauma democratico dell’isteria di stato seguita all’11 settembre, concentrandosi sulle atrocità compiute a Cuba. La traccia viene in questo caso fornita dal memoir dello stesso Slahi, edito in Italia da Feltrinelli con il titolo 12 anni a Guantanamo, un libro tra l’altro pesantemente redacted anche nella sua versione definitiva e stampata: vi troverete intere pagine di testo illeggibile perché censurato dalle autorità americane. La regia del sempre ottimo Kevin McDonald (L’ultimo Re di Scozia, State of Play) si limita a una confezione solida che lavora sui cambi di formato dell’immagine per distinguere il presente dai flashback, avendo ulteriore cura di far precipitare lo spettatore nell’incubo per gradi, con opportuna lentezza, emulando così la presa di coscienza sia di Slahi, che dei suoi avvocati.
Ma il vero valore aggiunto del film sono le interpretazioni, da Tahar Rahim (nel ruolo del protagonista) al citato Cumberbatch, con menzione particolare per Jodie Foster, che per il suo ruolo di avvocato difensore pro bono ha vinto il Golden Globe: il modo in cui lavora per sottrazione sugli sbalzi emotivi dei suoi personaggi era eccellente vent’anni fa e lo è ancor più oggi: vorremmo vederla davanti alla mdp più spesso.
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