The Post, la lezione di Spielberg
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The Post, la lezione di Spielberg

Questo mese l’obiettivo, più che su di una singola scena, è puntato sull’approccio alla regia di zio Stevie, specie quando si parla di fatti realmente accaduti. Invisibile eppure ricchissimo

The Post, la lezione di Spielberg

Questo mese l’obiettivo, più che su di una singola scena, è puntato sull’approccio alla regia di zio Stevie, specie quando si parla di fatti realmente accaduti. Invisibile eppure ricchissimo

Le prime reazioni a The Post di Steven Spielberg

Da febbraio 2016, Roberto Recchioni (fumettista e romanziere, oltre che curatore di Dylan Dog per la Sergio Bonelli Editore) firma su Best Movie A scena aperta, rubrica in cui svela i segreti delle scene più belle dei film disponibili in home video.

Su Netflix c’è una bella serie di documentari prodotta da Steven Spielberg intitolata Five Came Back, che parla dei cinque grandi registi di Hollywood che sono andati a riprendere la Seconda guerra mondiale e ne sono tornati ancora più grandi ma cambiati. Tra i cinque c’è anche William Wyler, su cui Spielberg stesso fa un lungo intervento per parlare di uno dei suoi capolavori: I migliori anni della nostra vita. Spielbergparla del film in termini entusiastici e racconta di come lo proietti per se stesso almeno una volta all’anno e di come lo mostri a tutti gli amici che non lo hanno ancora visto. La ragione per questa passione, a detta sua, è il particolare rigore con cui Wyler lo ha girato.

Il film, per tutta la sua durata, ha infatti una narrazione quasi a camera fissa, su ambienti e personaggi, aprendosi solamente nella scena finale con uno straordinario dolly a salire e poi una serie di raffinati carrelli. Il motivo di questo approccio è prettamente narrativo: Wyler (che era un regista di straordinario talento e competenza tecnica) scelse di rendersi quanto più invisibile possibile nella grammatica del film per mettere al centro l’umanità dei tre straordinari attori chiamati a interpretare i protagonisti della storia, per poi emergere prepotentemente nel finale, in modo da massimizzare il momento emotivo. E io credo che questa eccellente lezione di cinema sia stata tenuta ben presente da Steven Spielberg mentre girava The Post. Tanto è vero che qualsiasi tentativo di isolare una singola scena o momento particolarmente significativo del film si è rivelata un’impresa fallimentare per me, in quanto non sono le singole parti a rendere la penultima pellicola del regista di Jurassic Park tanto straordinaria, quanto l’equilibrio e il rapporto tra le stesse. In sostanza, come opera Spielberg all’interno della pellicola?

In una maniera semplice e cristallina, per quanto raffinata. La Storia (sì, quella con la S maiuscola) è fatta dagli uomini e i film sono fatti dagli attori, quindi la precedenza è sempre per loro. Del resto, quando davanti alla cinepresa hai due talenti puri della recitazione, solo un pazzo sposterebbe l’occhio da loro, giusto? Un pazzo o Iñárritu, che con Di Caprio e Hardy che si fronteggiano preferisce fare delle panoramiche dal basso sulle cime degli alberi. Fortunatamente, Spielberg non è Iñárritu e, messo di fronte a Meryl Streep e Tom Hanks che gigioneggiano tra loro (sempre con straordinaria misura, va detto), si mette comodo e li lascia fare, giocando con dei basilari campi e controcampi quasi scolastici (se mai qualcosa fotografato da Janusz Kaminski si possa definire “scolastico”) e con movimenti laterali e a girare così fluidi, così lenti, così minimali, da risultare quasi impercettibili (ma ci sono, eccome se ci sono). Tutto è al servizio della recitazione.

Ma non solo. Tutto è anche al servizio del passaggio di informazioni verso lo spettatore. La vicenda di The Post è lunga, complessa, e necessita di molte spiegazioni perché non è detto che il pubblico conosca ogni aspetto della cronaca reale. Quindi, nuovamente, Spielberg fa un passo indietro e lascia spazio a quello che serve. Lo fa con garbo ed eleganza, emulando l’approccio di Billy Wilder, il più grande regista invisibile della storia del cinema (che già in altre occasioni Spielberg ha omaggiato), ma lo fa. E non è poco.

Vedere uno dei più grandi cineasti di tutti i tempi uccidere il suo ego e lavorare come un solido mestierante in funzione delle necessità del film è già una cosa straordinaria ma, ovviamente, The Postnon è tutto qui. Perché Spielberg lascia scorrere fiumi di dialoghi, sopporta alcuni didascalismi strettamente necessari, aspetta pazientemente che il film gli lasci il margine di manovra e che la narrazione tiri il fiato, e poi esplode. Quando non c’è più bisogno di fatti e parole ma sono i sentimenti a contare, i movimenti di camera, pur rimanendo formalmente elegantissimi, si fanno ampi e arditi, difficili da immaginare per un regista meno dotato, impossibili da mettere in pratica. Spielberg pennella la narrazione di tocchi di classe assoluti, usandoli come contrappunto emotivo e come cassa di risonanza del già ottimo lavoro fatto dal reparto di scrittura e attoriale. L’unico, vero, effetto speciale del film è l’occhio di questo ragazzo di settantuno anni che sembra non esaurirsi mai per inventiva, coraggio, intelligenza, gusto, tecnica e talento. The Post, assieme a Il ponte delle spie, è la sua regia più matura, consapevole e armonica ma, allo stesso tempo, anche un’ennesima sperimentazione all’interno del linguaggio cinematografico. Un film che non può essere giudicato nelle sue singole parti ma che, proprio come le migliori armonie, deve essere valutato nel suo straordinario insieme.

Foto: © Amblin Entertainment/DreamWorks/Participant Media/Pascal Pictures/Star Thrower Entertainment

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