Tomb Raider: Alicia Vikander è una Lara Croft più fragile e umana, "orfana" e ferita. La recensione
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Tomb Raider: Alicia Vikander è una Lara Croft più fragile e umana, “orfana” e ferita. La recensione

L'attrice convince nei panni dell'eroina del celebre videogame, donandole modernità e un nuovo sex appeal, più fragile e meno appariscente

Tomb Raider: Alicia Vikander è una Lara Croft più fragile e umana, “orfana” e ferita. La recensione

L'attrice convince nei panni dell'eroina del celebre videogame, donandole modernità e un nuovo sex appeal, più fragile e meno appariscente

Tomb Raider

Lara Croft (Alicia Vikander) è la figlia di un eccentrico avventuriero, Lord Richard Croft (Dominic West), venuto a mancare quando lei era ancora piccola. Lara lavora come corriere, si barcamena in maniera faticosa per pagare l’affitto, si ritrova spaesata dopo sette anni senza il genitore. Qualcosa, però, la spinge a farsi largo nel mistero che avvolge la sua sparizione, a setacciare un enigma esotico che la condurrà su un’isola al largo delle coste del Giappone

Quando Alicia Vikander è stata scelta per interpretare questa origin story sulla celebre depredatrice di sepolcri del noto videogioco del marchio Square Enix (l’acquisizione dalla Eidos Interactive risale al 2009), un’archeologa prosperosa e spregiudicata già portata al cinema da Angelina Jolie per due film, l’unico oggetto del contendere sembrava essere il suo seno non altrettanto rigoglioso.

In realtà a segnare l’inversione di rotta era stato già il videogame nel 2006 (quest’ultimo film è ricalcato invece sul capitolo del gioco uscito nel 2013), che le aveva ridotto drasticamente il décolleté, per cui la scelta di casting di Alicia Vikander, non certo difettosa in carisma e sex appeal, coincide perfettamente con i successivi sviluppi estetici di Tomb Raider: più umana e smilza, dolcissima, meno robotica e statuaria. Più realistica che mitologica.

Qualcuno, lodando il modello di bellezza più ordinario e meno aggressivo proposto in seguito dagli autori del videogame, ha perfino parlato di una Tomb Raider femminista ed è indubbio che la cosa migliore di questa riproposizione del personaggio, che ora sbarca al cinema, sia proprio la Vikander, col suo corpo action snello e sbarazzino, agile e preposto all’avventura, ma anche col sorriso candido e la faccia pulita di un’icona della porta (o della tomba) accanto: un ammorbidimento degli occhi e delle espressioni oltre che delle forme (anche se alla canottiera non si rinuncia), ancora aperto all’immaturità, alle ferite della scoperta di sé e della crescita.

Questa Lara Croft 21enne è prima di tutto una figlia, fragile e sanguinante, particolarmente avvezza a sporcarsi le mani ma con addosso non pochi tentennamenti. La vediamo fin dall’inizio come una specie di Peter Parker al femminile, con le sue scorribande in bici da ragazza delle consegne, con la fierezza e l’ironia di una fallita, sì, ma sul punto di sbocciare. Se la Vikander fa il suo, a fare meno il suo dovere è la cornice che la circonda: un’avventura sovreccitata e convulsa come tante altre, che si abbandona a un esotismo che è sempre un po’ esoterico, proprio come nel recente La mummia con Tom Cruise, primo capitolo del ciclo, piuttosto incerto in quanto a destini futuri, sul Dark Universe.

Come in quel caso, l’insieme di ambientazioni è più giocoso e frenetico che in grado di creare un proprio immaginario di riferimento: i Tomb Raider con Angelina Jolie si affidavano a una trama avventurosa più canonica e meno fracassona, provando ad aggiornare all’era del trionfo dei joystick il piglio di una vaga Indiana Jones ipersessualizzataQui invece si lavora più sulle citazioni e sui fondali, da Londra a Hong Kong passando per un impianto un po’ alla Pirati dei Caraibi, con un’imperatrice sanguinaria a fare da spauracchio anche se si sa che questi cattivi bidimensionali e oltretombali funzionano meglio davanti la console che al cinema (perché in quel caso, a contare, è la missione, più il cosa che il chi: al cinema continua ad essere un po’ diverso).

A dirigere c’è il norvegese Roar Uthaug, sconosciuto ma di mestiere, che porta a casa un lavoro tutto sommato sufficiente e che suona azzeccato soprattutto quando sporca la sua protagonista di fango e e di detriti della terra attraverso dei corpo a corpo, rendendola così non solo imberbe ma anche fallibile ed esposta, in quanto figlia a tutto tondo, a mancanze e assenze troppo grandi per essere espiate: una Elettra molto elettrica, l’erede fragile e orfana di un tempo cruento e crudele. L’intuizione, per una origin story, non è affatto male, anche se i margini per esplorarla non sono di ampio respiro e tutto si muove su tasti ampiamente collaudati, con più azioni che reazioni.

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