I fatti. Il 14 gennaio del 2009 un Airbus delle United Airlines decolla dall’aeroporto di La Guardia, New York, in direzione Charlotte, che sono più o meno le tre del pomeriggio. Nemmeno un minuto dopo essersi staccato da terra, si verifica un “bird strike”: uno stormo di uccelli centra entrambi i motori dell’aereo, mettendoli fuori uso. A questo punto l’Airbus è a poche centinaia di metri da terra in fase di salita, e nel giro di pochi secondi gli resterà soltanto il volo planare – cioè l’inerzia, e l’aria.
Come andrà a finire è storia: il capitano Chelsea “Sully” Sullenberg scarta in sequenza l’ipotesi di tornare a La Guardia e quella di ricorrere a una delle piste di Newark, e punta infine l’Hudson.
“Ti ricordi quand’è stata l’ultima volta che un aereo è ammarato e non è morto nessuno?”, gli chiederà un collega più tardi, nei corridoi di un albergo di Manhattan. E quando Sully esita, aggiunge: “Appunto”.
E invece quel giorno si salvano tutti: 150 passeggeri, tre hostess e due piloti. Si salvano dall’impatto, si salvano dall’acqua gelata e si salvano dal vento gelido dell’inverno newyorkese, grazie anche al pronto intervento dei ferry che percorrono quel braccio di mare, e di elicotteri e sommozzatori della Guardia Costiera. Non si salva invece Sully da un’inchiesta sul suo operato – quelle inchieste che intervengono, stolide come un ingranaggio, ovunque si verifichi un danno economico e una sospensione della regola istituzionale, in questo caso un aereo distrutto e una manovra fuori dal manuale.
Il film di Eastwood è insieme la storia di Sullenberg, quella dei passeggeri e quella del processo. Non c’è vera suspense perché il finale è noto, eppure il volo – 208 secondi in tutto – è mostrato tre volte, secondo le tre prospettive. Così quei tre minuti diventano una specie di mosaico esploso, le cui tessere sono dettagli: la cabina di pilotaggio, la plancia di controllo, i sedili dei passeggeri, il cielo terso, New York innevata, silenziosa e bellissima.
Si capisce bene che mai come in un film del genere la differenza, spettacolare e morale, è nella scelta di quali pezzi del mosaico mostrare allo spettatore, cioè nel pensiero del registra che decide quale sguardo assegnarti, al di fuori delle necessità diegetiche.
Ora, qui non è che il critico possa aggiungere molto – le caviglie nell’acqua mentre la carlinga si riempie, quelli che si buttano nell’Hudson invece di aspettare gli scivoli, il modo in cui Sully guarda il ventre dell’aereo prima di lasciarlo -, non è insomma che possa descrivere tutti i dettagli: tocca fidarsi, e vedere.
Ma due cose si possono aggiungere. La prima è che il film imbastisce il solito, vecchio discorso eastwoodiano sul senso di responsabilità e l’etica del lavoro (“We did our job.”), ma tirato a lucido.
La seconda riguarda il tono del discorso e dello spettacolo, che in qualche modo restituisce la sensazione del volare, per chiunque l’abbia provata almeno una volta: l’ipotesi distante ma condivisa dello schianto, ogni volta che le hostess mostrano le uscite di sicurezza; la poderosa furia meccanica della salita; le gambe leggere dopo il decollo; la protezione effimera dell’acciaio e dei finestrini; la terra lasciata indietro.
E questa trasformazione del cinema in esperienza e memoria è magia pura, ed è solo dei maestri.