Johnno (Cristian Ortega) e Spanner (Lorn Macdonald), grandi amici, condividono un profondo legame. Prossimi all’età adulta, le loro vite stanno per prendere direzioni differenti: la famiglia di Johnno lo condurrà in una nuova città, verso una vita migliore, lasciando Spanner ad affrontare un futuro precario. Tuttavia, per loro e per l’intero Paese, questa estate sarà diversa. L’esplosione della scena dei rave party e del più ampio movimento di controcultura giovanile della storia recente sta infatti coinvolgendo (e sconvolgendo) il Regno Unito.
Beats di Brian Welsh, piccolo ma incendiario film scozzese visto al Torino Film Festival 2019, è un coming of age quasi miracoloso per la capacità di raccontare l’ebbrezza della gioventù e di certi suoi sogni sporchi e irriducibili, facendo oltretutto della musica da strada un combustibile infiammabile e non negoziabile, l’orizzonte ultimo al quale tendere, di battito in battito, di vertigine in vertigine.
Siamo nella Scozia del 1994, in una fase di depressione successiva allo strapotere di Margaret Thatcher, e in tv si ascoltano le parole di un Tony Blair appena entrato in politica. Questo contesto fa da fondale alla quotidianità randagia e un po’ scomposta di due giovani molto diversi – ribelle e indomabile Spanner, allampanato e represso, ma sempre sul punto di esplodere, Johnno – ma attratti visceralmente l’uno dall’altro, con una connessione alle soglie dell’affettività omoerotica. Sullo sfondo aleggia anche l’emanazione del Criminal Justice and Public Order Act, legge che vietava il ritrovo di venti e più persone che ascoltassero musica con dei beats – dei battiti, per l’appunto – superiori a un certo numero consentito (incredibile a dirsi, ma è tutto vero).
Il loro rapporto è restituito sullo schermo da un bianco e nero livido ma al contempo poetico ed estremamente romantico, nel quale Welsh sguazza a meraviglia muovendosi tra L’odio di Kassovitz, la tradizione gloriosa del Free Cinema britannico e inevitabilmente anche Trainspotting, dato che Spanner somiglia al fratello minore dell’indimenticabile Sick Boy del film cult di Danny Boyle (e nel film ha lui stesso un fratello maggiore, di nome Fido Smith, che più folle e violento di così sarebbe davvero difficile da immaginare).
Johnno, invece, ricorda in maniera impressionante un giovanissimo Dan Aykroyd, con quegli enormi occhioni da “cucciolo”, come lo apostrofa una delle tre ragazze (Laura, Wendy e Cat) al seguito dei due protagonisti nel corso delle loro peregrinazioni, e un’espressione stolida che ne cattura e ne congela la malinconia in una smorfia di perenne, ansiogeno stupore.
Il rave party al quale approdare, costi quel che costi, è solo un pretesto di cui Beats si serve per raccontare, a partire da uno spettacolo teatrale di Kieran Hurley, un momento storico della Gran Bretagna e un tessuto urbano e adolescenziale che negli anni ha poi smarrito, un po’ ovunque, quella passione travolgente e un po’ stordente per le chimere delle rivoluzioni, non importa se vere o presunte. La Generazione X, in sostanza, sarebbe ulteriormente scolorita in quella Z, scantonando in un’inerzia paralizzante e il più delle volte addirittura invalidante.
Guarda dunque a un passato dietro l’angolo che sembra già preistoria, Beats, ma non si ammanta della comoda coperta della nostalgia facile (anche perché si tratterebbe di una prospettiva assai miope), preferendogli l’incanto dell’imprevisto, dell’avventura, della psichedelia. Menzione finale, obbligata, per l’interprete di Johnno, Lorn Macdonald: un volto che sembra uscito dal cinema del miglior Ken Loach e un talento di razza, dall’avvenire assicurato.
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