Va in archivio l’edizione 2020 del Torino Film Festival, svoltasi esclusivamente online. 10 giorni di visioni che hanno accompagnato gli spettatori e sostanzialmente confermato l’ossatura dell’evento, seppur in una forma forzatamente ridotta dato il periodo. Un parere strutturato sul nuovo corso della direzione di Stefano Francia di Celle, che ha ereditato il testimone dalla solida gestione di Emanuela Martini, potrà però essere data solo al cospetto di un’edizione in presenza, dove il programma si farà auspicabilmente più ricco e saturo di indicazioni e le visioni acquisiranno maggiore corpo rispetto alla fruizione online (una pratica che, coi film cosiddetti “da festival”, rischia sempre di risultare particolarmente faticosa, specie se improntata all’accumulo di tanti film in pochi giorni).
Il concorso ufficiale ha visto trionfare l’iraniano Botox, opera prima di Kaveh Mazaheri (nella foto), per la quale vi rimandiamo, in fondo all’articolo alle cinque recensioni finali dal trentottesimo TFF, dedicate a film che hanno trovato un posto nel palmarès. Il premio speciale della giuria è andato invece al film messicano Sin Señas Particulares di Fernanda Valadez (l’avevo recensito qui), premiato anche per la miglior attrice Mercedes Hernandez. Il miglior attore è invece Conrad Mericoffer per il film rumeno Camp de Maci (anche per questo film rimandiamo l’appuntamento tra poche righe).
Tra i film del concorso hanno spiccato sicuramente due coming of age molto diversi tra loro ma ugualmente potenti come Las Niñas e Wildfire, ma anche il sudcoreano Moving On (le recensioni compreso quest’ultimo, vincitore del premio FIPRESCI della stampa internazionale, ai link esterni), mentre piuttosto debole è parso il rappresentante italiano Regina di Alessandro Grande, dove le traiettorie del legame familiare tra un padre interpretato da Francesco Montanari e sua figlia, segnati da un evento tragico e traumatico che si ritrovano a condividere, piuttosto che dare forza alla narrazione la proiettano verso un cono d’ombra troppo fragile e incerto, che non investe mai la concretezza dei personaggi e del loro rapporto.
Il Fuori Concorso è stato inaugurato a dovere dal documentario Gunda e, lungo il cammino, ha regalato più di una piacevole sorpresa (oltre a qualche delusione, come il biopic di repertorio su Billie Holiday, Billie). Le maggiori, ed è un buon segno, battono bandiera italiana: nello specifico Il buco in testa di Antonio Capuano, crudo racconto su una ragazza riesce a rintracciare l’uomo che ha ucciso suo padre e decide di volerlo incontrare – la storia si apre con l’omaggio più strampalato di tutti i tempi ai fratelli Lumière, per mezzo di un treno di Italo che arriva al binario, e parte per una tangente ruvida e carnale, da melodramma realista a tinte forti – e soprattutto Quasi natale di Francesco Lagi, forse il gioiello più inaspettato del TFF di quest’anno.
Si tratta di una dramedy d’impostazione teatrale che si fa largo nelle tensioni e nei desideri sepolti di tre fratelli. Con uno stile spoglio ma carico di senso, dialoghi solo in apparentemente casuali e senza peso e una messa in scena scarna e un po’ a corpo libero, che trova sempre l’equilibrio più sapiente e raffinato tra i registri, scivolando nella commozione senza effetti telecomandati e con un naturalismo prezioso e difficile da rintracciare nel cinema italiano di oggi. Nel cast, non a caso, ci sono Silvia D’Amico e Anna Bellato, tra le più giovani e valide attrici nostrane del presente, spesso impegnate in produzioni off e alternative (qui però, il tenore espressivo viaggia più alto rispetto a sterili pose indie e forzatamente d’autore, come ne L’ospite di Duccio Chiarini, dove non a caso recitavano entrambe).
A rubare la scena del TFF 38 ci ha pensato però soprattutto la sezione Le stanze di Rol, dove si sono visti oggetti di genere spiazzanti e originali, in grado di rifuggire le mode e di traghettare lo spettatore verso territori inesplorati. È il caso dell’horror arcaico e familiare The Dark and the Wicked (la visione più spaventosa del TFF di quest’anno) e della serie spagnola Antidisturbios (grande esempio di narrazione civile viscerale: di entrambi vi avevamo già parlato), ma anche di tanti altri film: The Oak Room (nella foto), dove bastano un bar, il suo proprietario e un vagabondo per creare un appagane e glaciale loop di racconti notturni dove il piacere dell’affabulazione è sovrano e destabilizzante; il godibile slasher femminista Lucky in accoppiata col bel corto Regret; il folle, demenziale e libertario Fried Barry, dove il protagonista, tossicodipendente, è posseduto da un alieno come in un trip sotto acidi; il torture porn scandinavo Bleeder per il quale l’aggettivo cronenberghiano, per una volta non è un sacrilegio; Funny Face (nella foto di copertina), conferma del talento selvaggio di Tim Sutton in un’opera di paralizzante bellezza compositiva, un po’ Joker e un po’ Refn, dove moltissime immagini sono traghettate verso l’estasi dell’installazione artistica (e si potrebbe continuare).
Veniamo ora, infine, alle mini-recensioni dei film premiati. Per la recensione del documentario di Walter Fasano, Pino, vincitore del premio di categoria, vi rimandiamo qui.
Miglior film, Miglior sceneggiatura – Concorso Torino 38
BOTOX (Iran-Canada, 2020)
di Kaveh Mazaheri
con Sussan Parvar, Mahdokht Molaei, Soroush Saeidi e Mohsen Kiani
drammatico
voto: 3/5
L’esordio nel lungometraggio di fiction dell’iraniano Kaveh Mazaheri è un’immersione in apnea nei contrasti più lancinante del suo paese, condotta con mano ferma e implacabile. Due sorelle, Akram e Azar, vivono con il fratello Emad. Intraprendono la coltivazione di funghi allucinogeni con un ingegnere male in arnese e mentono entrambe sulla tragica morte di loro fratello, dicendo a tutti che è fuggito in Germania, ma la bugia con cui fare i conti col tempo si fa sempre meno gestibile, torbida, pericolosissima. Disturbi psichici, narcotraffico e bisogno di svincolarsi idealmente e materialmente dalle proprie origini sono il perno di questo film formalmente algido e impassibile, con al centro un cadavere scomodo come tanti grandi thriller della storia del cinema. La rigidità asfittica è costantemente dietro l’angolo, ma spesso a riscattarla c’è un vitalismo interno tragico e prorompente. Sicuramente una delle visioni d’autore più intense del TFF 38 e un premio nell’insieme tutt’altro che immeritato.
Miglior Attore – Concorso Torino 38
CONRAD MERICOFFER (Camp de Maci, Romania, 2020)
di Eugen Jebeleanu
con Alexandru Potocean, Radouan Leflahi
drammatico
voto: 3,5/5
Cristi è un giovane poliziotto rumeno che vive un’esistenza conflittuale rispetto alla sua identità: lavora in un ambiente gerarchico e maschilista ma è omosessuale e cerca di conservare gelosamente il segreto sulla sua vita privata. Nei giorni in cui Hadi, il ragazzo con cui ha una relazione a distanza, è venuto a fargli visita dalla Francia, Cristi viene chiamato per un intervento: un gruppo nazionalista e omofobo ha interrotto la proiezione di un film a tematica LGBTQI+. Quando uno dei manifestanti minaccia di smascherarlo, Cristi perde il controllo. Un film intenso e misurato, sulla sessualità e lo smarrimento di sé, condotto in porto con mano sicura e una scrittura impeccabile e carica di sfumature. Poco più di un’ora e venti che non lesina uno studio intenso e vibrante dei corpi e momenti di grande forza formale, come la sequenza all’interno di una sala cinematografica, a conferma della maturità sfaccettata del nuovo cinema rumeno (ormai, per chi frequenta i festival da anni, non è più una grande novità).
Menzione speciale
EYIMOFE THIS IS MY DESIRE (Nigeria, 2020)
di Arie & Chuko Esiri
con Emmanuel Adeji, Mary Agholor, Kemi Lala Akindoju
drammatico
voto: 2,5/5
Due ragazzi nigeriani, Mofe e Rosa, vivono a Lagos e decidono di partire per tentare la sorte per risollevare il loro futuro e quello delle loro famiglie. Lui lavora in fabbrica, lei fa la parrucchiera e insieme progettano una vita migliore all’esterno. Il destino ostacola però i loro piani, e quando la realizzazione del loro sogno sfuma si vedranno costretti a riconsiderare anche la possibilità di costruire nel loro stesso mondo il futuro che desiderano. Dalla Nigeria, un esordio, diretto dai fratelli Arie e Chuko Esiri, nel cuore di una Nollywood che getta uno sguardo di radicale sofferenza sul mondo africano: un film doloroso e faticoso come le vicende che racconta e che riporta ogni ricaduta della messa in scena a uno sfibrante e tutt’altro che agevole realismo. Imponendo così a un occhio occidentale un’inospitale, ma non sempre stimolante, fuga coatta dalle proprie certezze.
Miglior film per Internazionale.doc
THE LAST HILLBILLY (Francia, 2020)
di Diane Sara Bouzgarrou e Thomas Jenkoe
voto: 3/5
Nel Kentucky orientale si assiste a un costante declino ambientale e sociale. A raccontarlo è Brian che vede davanti a lui un futuro senza prospettive, in una remota area rurale degli Appalachi dove la gente si sente poco americana. Brian Ritchie e la sua famiglia vivono da decenni in questa zona, un tempo terra di fiorenti miniere. Anno dopo anno, hanno visto svilupparsi un mix esplosivo di declino economico, disastro ecologico e violenza sociale. Li chiamano “hillbillies”, cioè bifolchi o zotici montanari, un insulto diventato per molti un segno d’identità. Documentario su un’America perduta eppure concretissima e attuale, The Last Hillbilly s’insinua nel solco ideale tracciato dal cinema di Roberto Minervini, ma con una dose ben minore di compromessi narrativi e un’equidistanza morale più netta. L’assenza di spiragli e il senso di collassamento sono quasi asfissianti, ma l’occhio dei registi è lucido, granitico e inossidabile, come il film in concorso The Evening Hour, per certi versi analogo per figure, paesaggi e temi, non aveva saputo essere sul versante di fiction.
Premio Speciale della giuria per Internazionale.doc
OUVERTURES (Francia, 2020)
di The Living and the Dead Ensemble
voto: 2,5/5
In Francia un ricercatore di Haiti cerca di leggere il passato attraverso lo studio stratigrafico del calcare giurassico. Contemporaneamente, ad Haiti, un gruppo di giovani attori traduce e prova Monsieur Toussaint, una pièce teatrale scritta da Édouard Glissant nel 1961. L’opera racconta gli ultimi giorni di vita di Louverture Toussaint, il rivoluzionario haitiano morto nel 1803 in esilio in una prigione sulle alpi francesi. Durante lo spettacolo gli attori iniziano a essere posseduti dai personaggi che interpretano, e alla fine il fantasma dell’uomo si unisce alla compagnia e li guida in un viaggio verso un nuovo esilio. Un documentario sulla “possessione” della rivoluzione, che fa della remota ed esotica Haiti una zona vergine e franca dell’immaginario in cui esplorare la filosofia del linguaggio di tanti moti del XX secolo. Con però tanti schematismi intellettualistici che, se da un lato non tolgono certo densità, dall’alto appesantiscono non poco la visione.
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