Torino Film Festival 2020, le recensioni. Seconda parte
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Torino Film Festival 2020, le recensioni. Seconda parte

Mickey On the Road, Wildfire, Moving On, Antidisturbios e Pino: nuove recensioni dal TFF online, con uno sguardo ai film del concorso, alla potentissima serie ispanica di Rodrigo Sorogoyen e al documentario di Walter Fasano su Pino Pascali

Torino Film Festival 2020, le recensioni. Seconda parte

Mickey On the Road, Wildfire, Moving On, Antidisturbios e Pino: nuove recensioni dal TFF online, con uno sguardo ai film del concorso, alla potentissima serie ispanica di Rodrigo Sorogoyen e al documentario di Walter Fasano su Pino Pascali

Torino Film Festival Antidisturbios

Il Torino Film Festival 2020, edizione in programma interamente online, è arrivata al giro di boa: proseguiamo dunque con un’ulteriore raccolta di mini-recensioni dal festival piemontese, oscillando nuovamente tra i titoli del concorso TFF 38, dedicando come da tradizione a opere prime e seconde, e film presenti nelle altre sezioni e ammirati in questi giorni ricchi di visioni in streaming. 

MICKEY ON THE ROAD (Taiwain, 2020) – CONCORSO TORINO 38
di Mian Mian Lu
con Pao-Wen Yeh, Ya-Ling Chang, Yu Chieh Hsu, Time Liu
drammatico
voto: 2/5

Il film della regista taiwanese Mian Mian Lu racconta di giovani alle prese con madri depresse, arti marziali, balli in discoteca ma soprattutto con la faticosa e arrancante ricerca di un proprio posto nel mondo. Mickey On the Road è però soprattutto un viaggio (purtroppo abbozzato) nella frattura tra Taiwan e la madre-patria Cina, tutto giocato su immagini languide ed estetizzanti, nelle quali la misura della permeabilità dell’Oriente rispetto a modelli occidentali è restituita da tanti dettagli e slanci kitsch. Non essendoci social (Facebook e Google sono censurati) sopravvivono la go-go dancing, i capelli rosa, gli scorci fluo, ma il coming of age è inutilmente stipato di riferimenti calligrafici e opachi e non scalfisce mai una superficie vacua che rimane arida e di maniera, somigliando più che altro alla copia carbone giovanilistica, molto vorrei-ma-non-posso, del maestro hongkonghese Wong Kar-Wai

WILDFIRE (Gran Bretagna, Canada, 2020) – CONCORSO TORINO 38
di Cathy Brady
con Martin McCann, Nora-Jane Noone, Aiste Gramantaite, David Pearse, Olga Wehrly
drammatico
voto: 3/5

A partire da una storia di fratture familiari e anche politiche, la giovane cineasta irlandese Cathy Brady, al suo esordio, dimostra molta sensibilità nel parlare di outcast, non lesinando stoccate sull’Irlanda contemporanea e i suoi mali. Dei coming of age visti a Torino quest’anno è finora il migliore insieme a Las Niñas (il genere di conferma più che mai primario nell’agenda audiovisiva del presente), ma con dalla sua una dose maggiore di vitalità emarginata e non riconciliata che intercetta, inevitabilmente, anche i fantasmi della Brexit e si fa perdonare di buon grado qualche ingenuità e strappo di sceneggiatura (specie per il modo in cui si cala nelle acque torbide del disagio senza smarrire la bussola). Magnifiche anche le due attrici protagoniste nel restituire il legame selvaggio, ansimante e tenerissimo delle sorelle Lauren e Kelly, forze motrici di tutta la storia. Wildfire è il primo film della Tempesta Film UK, divisione britannica della società del produttore Carlo Cresto-Dina, figura assai sensibile ai talenti emergenti e produttore, non a caso, di Alice Rohrwacher.

MOVING ON (Corea del Sud, 2019) – CONCORSO TORINO 38
di Yoon Dan-bi
con Choi Jung-un, Yang Heung-ju, Park Hyeon-yeong, Park Seung-jun
drammatico
voto: 3/5

Si rimane sempre ammirati al cospetto della maniera in cui il cinema asiatico contemporaneo riesce a declinare con garbo e anti-retorica storie sussurrate di tenerezza e anche un po’ di sfascio familiare, muovendosi nel solco della lezione che va dal totem per eccellenza del cinema nipponico, Yasujiro Ozu, fino a Hirokazu Kore-eda. Qui, nel film dell’emergente Yoon Dan-bi, siamo però in Corea del Sud (una ragazza adolescente e il suo fratellino vanno a vivere a casa del nonno, ma tutto cambia quando arriva anche la zia), la famiglia è il nucleo essenziale di ogni elaborazione traumatica come in Parasite del connazionale Bong Joon-ho, i sentimenti di dispiegano col tempo che serve e fanno silenziosamente molto male. I contrasti relativi alla crescita (altro giro, altro coming of age…) sono tanto essenziali quanto via via più nitidi con l’evolversi della sceneggiatura, le sfocature si riducono ed emerge il dover scendere a patti con la malattia non come motore di morte ma come fulcro imprevisto della vita che rimane.

ANTIDISTURBIOS (Spagna, 2020) – LE STANZE DI ROL
Regia di Rodrigo Sorogoyen, Borja Soler
con Vicky Luengo, Raúl Arévalo, Álex García, Hovik Keuchkerian, Roberto Álamo
azione
voto: 4/5

Una squadra di sei poliziotti anti-sommossa viene accusata di omicidio colposo dagli Affari Interni per un intervento violento durante uno sgombero nella piazza di Madrid, nel quale muore un immigrato. Un episodio di violenza che il nuovo nome caldo del cinema spagnolo, Rodrigo Sorogoyen, racconta nei primi due episodi questa mini-serie che in patria ha avuto un notevole successo. Lo stile frenetico e convulso del primo episodio è sinceramente impressionante, nel rigore ma anche nelle immagini grandangolari che tutto deformano e amplificano, senza mai smarrire lucidità e parlando a meraviglia il linguaggio sporco del realismo più ispirato e ferito: l’adrenalina cresce in modo esponenziale, il conflitto umano e sociale tra la rabbia degli sgomberati e i volti impassibili dei poliziotti sotto i caschi protettivi mette i brividi, i pastori della società civile si riducono a pecore, la bestialità prende il sopravvento. Lo splendore cinematografico è insomma ai massimi livelli e il proseguo della serie è assolutamente da tenere d’occhio (al TFF erano visibili solo i primi due episodi), ma la scrittura non è da meno nel mettere a fuoco la dolente ostinazione di Laia, agente degli Affari Interni che si dedica anima e corpo al caso, e gli strascichi nel privato dei poliziotti, chiamati ad assorbire cocci e ferite di questa brutta pagina. Il talento di Sorogoyen, dopo Il regno e Madre (visto all’ultima Venezia), è ormai una conferma e una promessa per il futuro.

PINO (Italia, 2020) – TFFDOC/Italiana
di Walter Fasano
con Suzanne Vega, Alma Jodorowsky, Monica Guerritore, Michele Riondino
documentario
voto: 3,5/5

Una riflessione sull’artista Pino Pascali, scomparso nel 1968 e al quale oggi è dedicato un museo nella sua terra d’origine in Puglia, il Museo Pascali a Polignano a mare. A firmarla è Walter Fasano (montatore molto stimato e collaboratore di lungo corso di Luca Guadagnino), che in un’ora di documentario molto densa e fitta condensa il lasciato di un conterraneo illustre delineandone la parabola, spezzata a poco più di trent’anni da un incidente in motocicletta, attraverso le fotografie Pino Musi e dello stesso Pascali. Il progetto è su commissione (il Museo ha chiesto a Fasano di documentare l’acquisizione dell’opera “Cinque bachi da setola ed un bozzolo”), ma Fasano è andato molto oltre nel patchwork di suggestioni e nel film di montaggio, categoria dove agilmente gioca in casa: ne emerge uno spaccato affasciante e perfino rabdomantico sull’eterno ritorno dell’ossessione artistica in rapporto alle geometrie del tempo e dello spazio e anche ai materiali fisici, con a fare da collante “un ingegno ribollente come la terra dopo che ha pianto”. Tre le voci narranti a scandire la narrazione in altrettante lingue: l’inglese americano della cantautrice Suzanne Vega, il francese di Alma Jodorowsky (nipote di Alejandro) e l’italiano di Monica Guerritore, con più i contributi vocali di Michele Riondino. Pascali, più che come un mero interprete dell’avanguardia romana degli anni ’60, ne viene fuori come uno scapigliato e scapestrato incrocio tra James Dean e Steve McQueen, dotato di un’energia creativa bulimica che transita scompostamente e senza colpo ferire dalla grafica alla pubblicità, dall’installazione al cinema. Sintomatico e significativo il passaggio in cui un gallerista parla di un legame artistico con Pascali che sfocia nel sodalizio umano e amicale più ampio, come quello che lega da tanto tempo Fasano al regista di Chiamami col tuo nome. E come Salvatore: Shoemaker of Dreams, doc di Guadagnino visto all’ultima Venezia, più che a un documentario canonico Pino somiglia a un biopic spericolato e avventuroso, marchiato a fuoco da passioni brucianti e fatali e da un gusto alchemico per la forma bella ma non questo necessariamente sterile.

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