Ispirato da fatti di cronaca accaduti in Italia, La notte brucia è la storia di Massimo e i suoi amici appena ventenni (Antonio e Hamza) ragazzi di provincia senza arte né parte: di notte si aggirano come animali da preda per le discoteche a derubare la gente con lo spray al peperoncino. A spingerli, la sete di adrenalina e il guadagno facile ma anche la necessità di lasciare un segno, di contare qualcosa.
Il cortometraggio, seconda regia di Angelica Gallo (cineasta classe 1990), è stato presentato nella sezione International Shorts della 39esima edizione del Torino Film Festival, dove si è aggiudicato il Premio Rai Cinema Channel, riconoscimento per l’acquisizione diritti web e free tv per l’Italia, con la seguente motivazione: Con uno sguardo reale, diretto e terribilmente vero, una mano registica sicura catapulta lo spettatore nella cruda realtà dei giovani protagonisti, senza risparmiarne la spietata efferatezza delle loro azioni. Una lotta alla sopravvivenza nella quale predomina la violenta fragilità del nostro mondo.
Si tratta di un corto che racconta, con una fortissima sensibilità femminile e un’attenzione non indifferente a gesti e pulsioni anche microscopiche, la tragica realtà di una giovinezza violenta e svuotata di senso, tra collane d’oro, soldi, casermoni, felpe con addosso dei bersagli del tiro con l’arco, quasi a sfidare il mondo con sfacciata imprudenza, e tantissime tentazioni, incluso il ricorso al reddito di cittadinanza per tranquillizzare i propri cari. «Max, Antonio e Hamza – spiega la regista Angelica Gallo nelle note di regia, parlando dei giovani del corto, tutti quanti irrilevanti, senza alcuna pietas né orgoglio per i sacrifici dei genitori – sono tre ragazzi qualunque, figli di un’Italia carburata con cocaina a basso prezzo e fake news su facebook, dove le piccole province diventano violente senza apparente ragione. I giovani privi di prospettive e di cultura non sono solidali tra loro, non hanno voglia di reagire, di ribellarsi».
Prodotto da Angelika Film Productions in collaborazione con Guendalina Folador (anche lei del 1990 e production manager di film come Dogman e Pinocchio, oltre che collaboratrice abituale di Matteo Garrone dal 2015), La notte brucia è il primo film distribuito dal giovanissimo brand Son of a Pitch e vanta nel cast, accanto ai tre giovani protagonisti, quasi tutti esordienti, la partecipazione speciale del regista Abel Ferrara e di due attori molto “garroniani”, Aniello Arena e Marcello Fonte. già protagonisti rispettivamente di Reality e Dogman.
A Torino abbiamo avuto modo di parlare con la regista Angelica Gallo, con la produttrice Guendalina Folador e col protagonista Eugenio Deidda, interprete del personaggio di Max, e vi proponiamo di seguito le tre interviste.
Nata a Roma nel 1990, Angelica Gallo realizza il suo primo cortometraggio documentario “La Quarta Parca” nel 2019: sviluppato durante i programmi Eurodoc e Mia|Market, è stato presentato in anteprima mondiale al Reykjavík International Film Festival e in altri festival internazionali.
Angelica, la storia de La notte brucia fa pensare alla strage di Corinaldo, ma tu saggiamente tieni la cronaca fuori campo per concentrarti su un racconto potente sulla crudeltà della giovinezza di provincia. Come sei arrivata a questo progetto e qual è la tua formazione?
La mia formazione è stata universitaria nell’ambito dell’arte contemporanea, non ho studiato regia. Il mio primo corto parlava di una volontaria che pratica il suicidio assistito, quindi anche lì c’era il tema del corpo oltre la vita, mentre di questa storia mi ha colpito tantissimo che ci fossero contemporaneamente in ballo dei corpi ma anche degli anti-corpi: quelli dei ragazzi che racconto sono corpi che non hanno consapevolezza di se stessi, agiscono in maniera molto futile e superficiale, anche in rapporto a ciò che li circonda. Ciò che è successo a Corinaldo nel 2018 dimostra anche quanto il corpo non abbia valore per chi causò quella strage, tanto da poter arrivare a uccidere. I protagonisti de La notte brucia sono ragazzi di provincia che vivono in delle realtà senza mezzi, senza istruzione, senza cultura, senza la possibilità di discernere cosa è giusto e cosa ha valore, finendo col trattare le persone come delle cose. Quindi possono fare agli altri qualunque cosa, anche ucciderli. I loro valori sono ribaltati e non approfondiscono mai nulla, anche se in relazione a quest’ultimo aspetto non è nemmeno del tutto colpa loro.
La tua regia sceglie di soffermarsi, più che sulla messa in scena esaltante e virile della violenza, su dettagli molto specifici della vita dei protagonisti, con un’attenzione quasi antropologica. Anche i luoghi in cui hai girato, oltre ai gesti che immortali con la macchina da presa, hanno un grande sapore di realismo.
Mi fa piacere che emerga e con lo sceneggiatore Nicolò Galbiati ho cercato di non creare personaggi che agissero in maniera molto stereotipata. Ho amato molto Elephant di Gus Van Sant, dove ci sono dei ragazzi che compiono una strage in una scuola ma allo stesso tempo suonano Beethoven da Dio. Il protagonista de La notte brucia toglie la sigaretta alla madre, perché pensa che le faccia male e vuole tutelarla, ma allo stesso tempo nasconde ciò che ha rubato sotto il materasso. Questi ragazzi sono dei bulli ma hanno anche una tenerezza, perché non hanno la consapevolezza di chi è veramente cattivo. Hanno la timidezza di chi vuole risultare cattivo, ma non ce la fa in tutto.
Sono anche dei gangster quasi loro malgrado, con dei tratti quasi femminili, e da donna ne La notte brucia hai diretto praticamente solo personaggi maschili, cosa che non accade spesso per questo tipo di storie.
Non è stata una scelta conscia, sono stati direttamente i personaggi a richiamare la mia attenzione. Avere uno sguardo femminile su questi ragazzi mi ha permesso di raccontarli con una tenerezza più da madre, pur essendo loro quasi miei coetanei. Amo molto Haneke, che ha raccontato tanti personaggi maschili ma ne La pianista, con Isabelle Huppert, ha portato al cinema una donna e l’ha fatto benissimo. L’ho preso a modello anche per il mio primo cortometraggio documentario, che girato in maniera molto rigorosa perché amo quel suo non raccontare tutto e far emergere più le sensazioni, l’esasperazione che è nell’aria.
Com’è stato dirigere Abel Ferrara nel ruolo di un compro-oro? Il suo è un cameo che impreziosisce tantissimo il corto, anche perché Ferrara oltre a essere un grande regista è una grande faccia da cinema.
Sono una sua grande fan, in particolare de Il cattivo tenente, ci avevo lavorato due anni fa e nel corto ho cercato di richiamare anche colori e atmosfere del suo stile, oltre a quelli di Gaspar Noé. Si è presentato puntualissimo sul set, e ha stretto un bel rapporto coi ragazzi. L’abbiamo tenuto due ore a girare e sapeva bene le sue battute, è stato estremamente professionale, anche se rivedendo i giornalieri col montatore Massimo Da Re ci siamo accorti che in un take diceva “Save me!” perché non si ricordava una frase che avrebbe dovuto pronunciare. Come persona è estremamente selvaggio ma anche molto umano, cerca sempre un rapporto con chi vuole raccontare, e anche con se stesso. Gli ho chiesto come girare la scena della discoteca, e lui mi ha suggerito di girarla molto “stretta”, cosa che poi ho effettivamente fatto.
In quella sequenza in effetti vai molto sui dettagli congelando l’atmosfera di grande pathos, però dopo l’esplosione repentina di violenza giri un campo lungo con una corsa quasi alla Jules et Jim di Truffaut, tendendo a smorzare la violenza o comunque a suggerire una via di fuga. Anche il finale mostra il pestaggio del protagonista in campo lungo e soprattutto dalla soggettiva della vittima nel momento in cui viene colpito durissimo, senza insistere voyeuristicamente e sposando il suo punto di vista.
Girare quella scena in questa maniera era un modo per mettersi e mettermi al suo stesso livello, senza giudicarlo dall’alto, anche se ha rubato e ingannato i suoi amici. Non volevo fare un totale troppo lontano da lui, come a suggerire che la violenza la subiamo anche noi come spettatori.
Il titolo oltre che affascinante è anche molto largo, essendo declinato all’eterno presente.
Volevo richiamasse una sensazione. La notte come momento allude alla maggior vulnerabilità delle persone, mentre l’idea di bruciare poteva ricondurre all’uso dello spray.
Eugenio Deidda nel corto interpreta il protagonista Max. Eugenio, alias “Edmond”, è uno scrittore ed ex detenuto del carcere di Roma. Ha scritto “Ho innalzato sogni più alto di ‘ste mura” e “Mi chiamano sbandato”. Questa è la sua prima esperienza nel cinema da protagonista. Durante il suo periodo di detenzione ha recitato, in una piccola parte, in Dogman di Matteo Garrone.
Eugenio, il tuo percorso personale di riabilitazione all’interno del carcere ti ha portato a metterti alle spalle un’esperienza di vita estremamente traumatica e dolorosa attraverso la recitazione.
Sono stato un ragazzo di provincia arrabbiato e delinquenziale. Ho passato l’adolescenza in questo modo e conosciuto tanti personaggi di quel tipo, per cui in questo corto non mi veniva richiesto di interpretare una cosa lontana da me, come un avvocato ad esempio. I pazzi e i carcerati mi vengono bene perché, anche se non faccio riferimento direttamente a me, risalendo al mio albero genealogico o tra i miei amici li trovo, se non sono io è uno di loro. Nel lavorare al mio personaggio sono tante le persone che ho incontrato nella mia vita che potevano ispirarmi.
In carcere ti sei dedicato molto alla scrittura, da cui tutto è ripartito.
Ho scritto delle poesie e anche dei racconti. Ho cominciato a leggere per poi scrivere e lavorare anche a teatro, soprattutto con dei monologhi, cosa che faccio anche adesso e che mi piacerebbe continuare a fare. Non rinnego il mio passato, anche perché l’85% dei miei amici sono carcerati ed ex carcerati. Non smetto di sentirli vicini a me e il dolore è una moneta che venderò per sempre, ma la stanchezza per quel tipo di vita mi ha portato a lasciarmela alle spalle cercando altro e trovandolo nell’arte.
Come ti sei trovato a recitare accanto a grandi nomi del cinema come Abel Ferrara, Aniello Arena e Marcello Fonte?
Sono tutte persone umanamente molto carine, che non si pongono su nessun piedistallo. Con Abel ci siamo trovati molto bene, anche se non capivo nulla di quello che diceva non parlando bene inglese. Marcello invece è un attore fenomenale e con Aniello c’è stata una sintonia particolare avendo vissuto lui la mia stessa esperienza di vita, anche se in maniera molto più forte e amplificata, con una violenza doppia e forse anche quadrupla.
Guendalina Folador è diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografa di Roma in Produzione. Attualmente lavora come referente della società Archimede di Matteo Garrone.
Guendalina, La notte brucia è un cortometraggio in cui si sente molto la tua impronta dal punto di vista produttivo. Com’è nato?
Con Angelina abbiamo sviluppato una sintonia umana molto forte fin dal suo primo cortometraggio. Insieme riusciamo a gestirci, abbiamo delle sensibilità affini, e ci siamo volute confrontare con temi che fossero caldi e interessanti. La malavita adolescenziale è un tema già visto, senza dubbio, ma era bello dare la nostra interpretazione.
Come bisognerebbe intendere oggi, secondo te, la figura del produttore?
Il produttore per me dev’essere 50% imprenditore e 50% artista, come ti insegnano immediatamente quando studi per fare questo mestiere. Ce lo diceva sempre Nicola Giuliano, che è stato mio insegnante al Centro Sperimentale. Un altro aspetto fondamentale, secondo me, è realizzare questo tipo di corti in fretta, senza aspettare troppo, per avere immediatamente dei riscontri e fare rete tra persone che magari hanno già collaborato in passato e possono trovare nuove energie e stimoli rinnovati.
Nel film Esterno, notte di Luca Rea presentato qui a Torino in questi giorni Domenico Procacci, che come te ha lavorato con Garrone, dice che alcuni registi vedono spesso il produttore come una figura antagonista, e che a volte ai produttori non viene nemmeno voglia di proporre certe cose ai registi perché sanno già che diranno di no o faranno ostruzionismo. Che ne pensi?
Penso che bisognerebbe superare il luogo comune che vede il produttore come una figura che taglia solo il budget e le risorse economiche a suo piacimento, e magari non capisce nulla di aspetti creativi e artistici. Quando sei protetto dalla figura del produttore, e vale anche per i giovani registi come Angelica, puoi sviluppare molto meglio il tuo talento.
Come vedi la sensibilità della tua generazione?
Purtroppo a livello generazionale oggigiorno c’è un forte senso di vuoto, si pensa molto a ciò che è necessario per ciascuno di noi nell’oggi e non a ciò che potrebbe esserlo domani. Si vive molto nella nostalgia perché non si è molto capaci di riprodurre ciò che ci ha resi felici nel presente, si preferisce galleggiare in una sorta di nuvola.
La notte brucia è molto garroniano e l’uso degli attori si configura evidentemente come un omaggio agli interpreti cari a Garrone e al modo in cui lui li ha usati: Aniello Arena crea il conflitto, in questo caso generazionale, mentre Marcello Fonte è più un Caronte che traghetta i protagonisti verso la resa dei conti finale, con la sua proverbiale tenerezza e naïveté di chi sembra sempre capitato lì per caso.
Li conoscevo già, avendo lavorato con Matteo in passato, e come attori mi sembrava che fornissero delle chiavi di lettura interessanti per arricchire il corto, ci serviva la loro umanità. I personaggi erano scritti così già in sceneggiatura, ma non erano stati pensati ad hoc per gli attori che li hanno poi interpretati. Marcellino, nello specifico, è una figura di passaggio, non si sporca mai le mani, osserva tutto da lontano. Il suo personaggio all’inizio aveva un ruolo leggermente diverso, ma con Angelica ci siamo accorti ben presto che la sua funzione effettiva doveva essere proprio quella che ha poi ricoperto nel corto.
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