Fa il paio con molte cose 50/50, la dramedy (genere tra il dramma e la commedia) con Joseph Gordon Levitt e Seth Rogen che si toglie lo sfizio di scherzare sul tema del cancro. E che lo fa andandoci giù pesante, con un livello di scorrettezza che oggi soltanto un genio “selvaggio” come Rogen può permettersi (ma siamo curiosi di sapere se l’incredibile gag sulla morte di Patrick Swayze supererà la fase di doppiaggio).
Fa il paio con The Descendants, di cui vi abbiamo raccontato poche ore fa, per il modo in cui stempera argomenti tabù (lì l’eutanasia, qui i tumori) vestendoli di una comicità anarchica e liberatoria.
Fa il paio con 500 giorni insieme, perché Joseph Gordon Levitt è ancora bravissimo a interpretare personaggi a un bivio esistenziale usando l’arma della malinconia, e lasciando emergere con naturalezza isolati momenti di disperazione.
E fa il paio con tanta televisione di qualità, a partire da The Big C – il serial con Laura Linney dove C sta per cancro – e Breaking Bad, perché la costruzione drammaturgica dei rapporti familiari e d’amicizia del protagonista, viene direttamente da quel tipo di serial, dal modo in cui ha modificato le attese e la preparazione degli spettatori negli ultimi dieci anni (basti pensare a Nip/Tuck, altro riferimento immediato).
La storia è quella di Adam, 28enne impiegato con una fidanzata aspirante pittrice Rachael (Bryce Dallas Howard), un collega/compare esuberante e infantile Kyle (interpretato da Rogen), un padre malato di Alzheimer e una madre apprensiva (Angelica Houston). La sua routine viene completamente distrutta quando gli viene diagnosticato un cancro spinale, uno di quelli che – a quanto scova in Rete – garantiscono una percentuale di sopravvivenza del 50% (da cui il titolo).
Chemioterapia, sedute di sostegno da una giovanissima psicologa Katie (Anna Kendrick) che tende a farsi coinvolgere un pò troppo, l’amicizia ospedaliera con altri degenti, tutti più vecchi di lui: una vita che pian piano si sfilaccia. Unici punti fermi, l’amicizia maschile e la famiglia. Ora, senza entrare in un’analisi politica della scelta di campo e dei valori del film, di sicuro c’è che la storia fila liscia come l’olio, tra irresistibili paradossi (Kyle usa sistematicamente la malattia di Adam per rimorchiare e farlo rimorchiare) e fuggevoli momenti di commozione.
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