PREMESSA
A fare questo mestiere capita di perdere un po’ la bussola. Quanto è famoso Steve McQueen, video-artista, ora regista, uno che con due film è già diventato uno di quei due o tre autori per lavorare con il quale qualsiasi star è disposta a rivoluzionare la propria schedule? Quanto lo conoscete là fuori?
McQueen è il regista di Hunger e Shame, entrambi usciti in Italia per BIM, entrambi con protagonista Michael Fassbender. Sono film sfuggenti, di regia più che di racconto – storie semplici, sospese, di grande bellezza e grande brutalità. Parlano una di terrorismo, e l’altra di dipendenza dalla pornografia, ma a ricordarle è più facile che venga in mente Carey Mulligan che canta “New York New York“, o Fassbender che fa jogging di notte in piano sequenza. Per dire che nel cinema di McQueen il compiacimento formale è evidente, anche un pochino invadente.
12 YEARS A SLAVE
Cambia completamente la faccenda con la sua opera terza, 12 Years a Slave, presentata in prima mondiale a Toronto, e salita alle cronache per essere il film che ha rifiutato il Festival di Venezia. Ambientato a metà Ottocento, prima della Guerra Civile americana (quella raccontata in Lincoln), è la storia di Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor), cittadino afroamericano libero, che vive a New York con la moglie e i due figli piccoli, e suona magnificamente il violino. Ingannato da due balordi, viene ingaggiato per suonare in un’orchestrina a Washington, e invece drogato, imprigionato, venduto come schiavo. Tornerà a casa dopo 12 anni di sottomissione e violenze fisiche e psicologiche.
I TRE CERCHI DELL’INFERNO
Quanto il tema stia a cuore a McQueen (anche lui nero, tra l’altro) lo si capisce proprio dalla struttura del montaggio e della regia – e qui ci attacchiamo alla premessa: nonostante permanga la predilezione per le sequenze lunghe e senza stacchi (ce ne sono almeno due pazzesche), stavolta tutto è funzionale alla progressione della storia. Solomon compie un percorso dantesco, scende i gironi dell’inferno schiavista: lo privano dello status sociale (con bastone e frusta), poi dei vestiti, della parola, del nome. Passa di mano in mano: il mercante che lo vende, un ometto che tratta i neri come cavalli (Paul Giamatti); il suo primo proprietario, un pastore protestante, illuminato per quanto glielo permette la società (Benedict Cumberbatch); e infine il secondo, un terrificante latifondista ubriacone (Michael Fassbender), che per i suoi schiavi prova un misto di repulsione e morbosa dipendenza – in particolare per la giovanissima Patty, capro espiatorio di tutti i capricci della moglie.
Questo è l’ultimo cerchio, il più terribile. C’è una quota di cotone procapite da raccogliere ogni giorno, e chi la manca è frustato a sangue. Ci sono grotteschi balli in piena notte, per diradare la noia del padrone. Ci sono vendette senza ragione, aggressioni sistematiche, tranelli insensati.Finalmente, dopo 12 anni di questa vita, Solomon conosce per caso un architetto (Brad Pitt) venuto a costruire una capanna nel parco del suo padrone. Lo sente argomentare contro la schiavitù e decide di raccontargli la sua storia. Poche settimane dopo si ritroverà libero.
LA PASSIONE DI SOLOMON
Dal film si esce esausti di crudeltà, ma l’insistenza sulle piaghe della carne non è minimamente paragonabile, per dire, a The Passion. Interessa certo a McQueen la prostrazione fisica del tormentato, ma gli interessa altrettanto, forse di più, la psiche contorta dell’aguzzino, le origini della crudeltà sociale e privata. In un certo senso il protagonista vero della storia è proprio l’ultimo padrone di Solomon, e non è un caso lo interpreti ancora Fassbender, che nel ruolo è veramente spaventoso.
In tutto, due volte si deve abbassare lo sguardo, e magari i più coraggiosi riusciranno pure a tenerlo alto.
OSCAR
Sulla prevedibile pioggia di nomination e Oscar, c’è poco da obiettare: è un film che lavora sullo spettatore, per giorni, e su tutti i fondamentali del cinema. Non c’è niente di sbagliato, niente di superfluo, niente che non sia importante. Sarà un trionfo previsto, e meritato, nonostante la sensazione un po’ sgradevole che McQueen – piuttosto che essere costruttivo – preferisca sempre lavorare sui sensi di colpa: propri e di chi guarda.
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