Prendete Travis Bickle, il leggendario protagonista di Taxi Driver, e trasferitelo da New York a Los Angeles. Notturno, emarginato, metodico nella sua solitudine, il protagonista di Nightcrawler deve moltissimo all’antireroe creato da Paul Schrader, Martin Scorsese e ovviamente Robert De Niro. In una città in cui crimine e produzione di immagini spesso sono due facce della stessa medaglia, Lou Bloom sceglie di sfruttare le potenzialità di entrambe per costruire notte dopo notte il suo personale sogno americano.
Esordio alla regia dello sceneggiatore Dan Gilroy, Nightcrawler è un lungometraggio che nella sua idea originale vorrebbe unire thriller, commedia nerissima e discorso di satira sociale. Anche se non tutto è amalgamato alla perfezione, il prodotto rimane ugualmente molto affascinante, in bilico costante tra un tono più leggero e momenti fortemente drammatici. Jake Gyllenhaal costruisce scena dopo scena una figura melliflua, a tratti spaventosa, ma comunque attraente. L’attore è bravissimo a muoversi tra le zone oscure della personalità di Bloom e la sua superficie invece più guascona. Non andare mai troppo sopra le righe era la sfida maggiore, e Gyllenhaal ci riesce grazie a una competenza attoriale che sta crescendo film dopo film, dopo l’exploit dello scorso anno ottenuto con la magnifica prova di Prisoners, presentato anch’esso qui al Toronto Film Festival lo scorso anno.
Dopo un inizio molto intrigante nel definire la psicologia del personaggio principale e il setting della vicenda – raramente Los Angeles è stata così affascinante e paurosa al cinema negli ultimi tempi – Nightcrawler subisce un piccolo passaggio a vuoto nella parte centrale, che si arena un po’ troppo nello sviluppo della relazione tra Gyllenhaal e Rene Russo, nei panni del producer del network per cui lavora il protagonista. Superato questo momento di impasse però, il film si riprende con un finale in crescendo che osa molto in termini di tono. In alcuni momenti sembra che la narrazione viri verso la commedia nerissima, in altri sembra prendersi molto sul serio. Questo senso di indefinitezza, però, non è un difetto perché finisce per ipnotizzare lo spettatore.
Gilroy costruisce esteticamente la lunga sequenza finale con buon senso del cinema, senza forzare troppo nell’uso di immagini sporche. Il lungometraggio possiede una sua eleganza peculiare, claustrofobica anche quando le scene sono ambientate nelle highways che circondano Los Angeles. Merito che va attribuito anche alla fotografia molto efficace di Robert Elswit. Film particolare, alterno, sfrontato, che merita di essere apprezzato nonostante qualche piccolo passaggio a vuoto.
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