India, XIX secolo. Ai confini estremi del villaggio di Tumbbad vive Vinayak, figlio illegittimo del signorotto locale. Il ragazzo nutre la ferma convinzione che la bisnonna, strega destinataria di un anatema, possa rivelargli il segreto di un anziano uomo e permettergli di mettere le grinfie su un tesoro inestimabile. L’ossessione del ragazzo per la ricchezza non conosce sollievo nemmeno negli anni a venire, tanto da tramutarsi per lui nel cappio a collo di una dannazione eterna.
La Settimana della Critica di Venezia, com’è noto, è da oltre un trentennio la sezione in cui si coccolano scoperte e nuovi talenti: l’avamposto del cinema del futuro. Nel segno della ricerca, oltre che lontani dagli obblighi istituzionali del concorso ufficiale, in questa zona franca della Mostra del cinema ci si possono concedere rigeneranti e spesso spiazzanti immersioni in un cinema altrimenti invisibile. Di novità, di rottura, quantomeno di ricerca, con una timbrica tutta sua.
Ha senz’altro tali prerogative Tumbbad, il sorprendente fantasy indiano che ha inaugurato la SIC 2018 nel segno di un singolare gusto per l’avventura. Si tratta di un prodotto anni luce lontano dalla produzione indiana cui molti potrebbero pensare: non ci sono balletti, le seduzioni popolari dei ritmi di Bollywood sono lontanissime, eppure è un film con un forte segno commerciale, che unisce una dimensione fantasiosa e sregolata con un tocco da cinema per ragazzi, intinto però nel sangue e sprofondato all’Inferno.
Il film si apre con una battuta di Gandhi (Il mondo è abbastanza grande per i desideri di tutti, ma non per l’avidità di ciascuno) ed è chiaro fin da subito che l’avidità e le sue letali conseguenze saranno al centro di una messa in scena insieme antichissima (l’universo, gli dei, la polvere di stelle, i ventri materni delle divinità) e spaventosamente attratta dalle sirene della modernità, dalle sue trappole inebrianti e tossiche.
Non a caso Tumbbad è un film che si guarda come in apnea, galleggiando sospesi tra questi due poli. Ma con dalla sua la leggerezza di una domenica pomeriggio davanti alla tv, di un viaggio adolescenziale e mai davvero adulto alla Steven Spielberg o alla Joe Dante. Ovviamente in miniatura, ma con un gusto macabro davvero estremo, che non si risparmia di capitolo in capitolo, arrivando alle soglie del martirio truculento.
Tra paesaggi che piombano a schiaffo dentro le immagini e un gusto esoterico che non rinnega le derive più splatter, a tutto vantaggio dello stupore dello spettatore, che non può non rimanere spiazzato al cospetto di un oggetto così originale e pieno di invenzioni, ancorato tanto a una solida e magica identità di genere quanto alle difficoltà dell’India e dei suoi strascichi post-coloniali, autentico convitato di pietra del film.
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