William Turner ha 50 anni, un corpo enorme, mani tozze, osserva il mondo sul crinale di una collina, su una bagnarola in mare aperto, attaccato al pennone di una nave in tempesta, col ghiaccio che gli sferza la faccia, all’alba e al tramonto, è incantato dalla luce, «Il sole è Dio».
È un uomo di solido egoismo, ha ripudiato moglie e figlie, quando una di queste muore non si presenta neppure al funerale. È legato invece al padre, che lo asseconda e nutre, che gli procura i colori (che sono spezie, venduti a peso, in polvere, come il tè, e vengono da paesi lontani, il Blu Oltremare dall’Afghanistan, oltre i mari appunto) e lo sveglia dopo i sonni pomeridiani. Si divide tra la casa di famiglia e una pensione nell’estremo sud della città, dove ci sono i panorami che gli servono, la luce arriva prima e va via dopo. Si divide anche tra due donne, la governante silenziosa che usa per soddisfare i propri bisogni, e la vedova che gestisce la pensione, di cui si innamora con sorpresa, riconoscendone la quieta intelligenza, una dedizione ragionevole.
È già comunque, a quell’età, un artista riconosciuto, orgoglio nazionale, i drammaturghi lo citano nelle loro commedie, durante le esposizioni all’Accademia riservano ai suoi quadri posti di prestigio. Dopo tanti anni si sente più che mai in forze e in diritto di spostare in là i termini della sua ricerca formale, ma lo divertono anche i piccoli scandali, come la boa rossa che sfregia e immortala la sua marina più famosa. Sostiene con tedio, invece, il peso delle convenzioni, è sfiancato dal realismo borghese, dai salotti che lo trattano come ospite d’onore, dai paggetti compiacenti, dalle damigelle chiacchierone. Sputa e soffia sui suoi quadri – usa la saliva e la fuliggine – perché funziona ed è veloce, e sfuma i contorni delle cose nei colori perché così esattamente vede, non solo per provocazione. Quando però smettono di comprendere quel che fa, ed è la stessa gente che disprezza, accusa il colpo.
Mike Leigh racconta (mostra) tutto questo e rende omaggio all’artista, al vecchio favoloso, con una commedia umana in cui la tradizione teatrale inglese – la recitazione è stilizzatissima, Timothy Spall addirittura passa il film a grugnire, la sua irrequietezza è un rifiuto del decoro altrui, una distanza più che un affronto, non è verbalizzabile – affoga nei colori di Turner, c’è uno studio degli ambienti e delle luci che è commovente, si resta continuamente sbalorditi dall’ovvietà dell’incontro tra questo cinema e quella pittura, a cavallo tra due modi di guardare e comporre, il dialogo tra film e dipinti è semplice e magniloquente, puro godimento.
Della colonna di sequenze impeccabili, mai davvero sopra le righe, ne ricordo tre: quella della boa, già citata; il dibattito salottiero pseudo-critico; la prima visita al fotografo.
E il finale anticlimatico: l’ossessione creativa (la donna annegata, la fuga sulle scale) poche ore prima di diventare “una non-entità”, come dice lui. Poi le donne che lo hanno amato, e il silenzio.