Tutta mia la città, ai tempi del Coronavirus Roberto Recchioni ricorda una mitica scena di 28 giorni dopo
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Tutta mia la città, ai tempi del Coronavirus Roberto Recchioni ricorda una mitica scena di 28 giorni dopo

In 28 giorni dopo Danny Boyle racconta l’apocalisse zombie per immagini in maniera magistrale: non serve nemmeno una battuta per spiegare la catastrofe che si abbatte su Londra

Tutta mia la città, ai tempi del Coronavirus Roberto Recchioni ricorda una mitica scena di 28 giorni dopo

In 28 giorni dopo Danny Boyle racconta l’apocalisse zombie per immagini in maniera magistrale: non serve nemmeno una battuta per spiegare la catastrofe che si abbatte su Londra

Il regista Danny Boyle e lo scrittore (poi diventato regista anche lui) Alex Garland si sono piaciuti da subito e per un lungo periodo, nonostante la loro collaborazione abbia dato vita a tre film di cui solamente uno si è poi trasformato in un reale successo, ovviamente parliamo di 28 giorni dopo. La pellicola opera un processo di sintesi post-moderna molto caro allo scrittore e, pescando a piene mani da tutti i classici del genere, porta in scena una specie di “riassunto” o di “edizione Bignami dello zombie movie”, al pari di quanto Garland aveva già fatto con The Beach (in cui convivevano tutte le suggestioni dei racconti sulle comunità isolate in un contesto esotico, dal Signore delle mosche fino ad Apocalypse Now) e di quanto avrebbe poi fatto con il genere di fantascienza con Sunshine (che riuniva sotto lo stesso tetto 2001: Odissea nello spazio, Alien, Solaris e The Black Hole). In 28 giorni dopo ritroviamo quindi atmosfere e momenti topici riprese di peso dalla filmografia di Romero e da titoli come La città verrà distrutta all’alba, La notte dei morti viventi, Dawn of the Dead (Zombi da noi, nel rimontaggio di Argento), Il giorno degli Zombi, ma anche da romanzi come Il giorno dei trifidi di John Wyndham e dalla serie di videogiochi della Capcom, Resident Evil (di cui Garland era un grande fan).

Il risultato è un film ricco di situazioni, perfettamente strutturato, molto coeso e convincente, che riesce a ripercorrere tutte le fasi e le evoluzioni del genere che prende in esame, generando un qualcosa di nuovo. La cosa più riuscita però è sicuramente la maniera in cui inizia. Non proprio il prologo a dire il vero (che anzi, risulta goffo, non necessario e girato anche malino, a essere proprio onesti), ma dal minuto 5 e 27 secondi, da quando il protagonista (un Cillian Murphy ancora lontanissimo dall’intepretare il Thomas Shelby di Peaky Blinders) si risveglia in ospedale, ventotto giorni dopo la diffusione di un virus che fa impazzire le persone, trasformandole in bestie rabbiose, assetate di sangue umano e dannatamente veloci. Si parte con un dettaglio dell’occhio e poi si spiazza subito lo spettatore con uno stacco all’indietro e una inquadratura a picco sul corpo nudo di Murphy, sdraiato in un letto di terapia intensiva. Sembra un Cristo in croce (1).

Murphy si alza a fatica, strappando via le varie agocannule che lo tengono attaccato a delle sacche ospedaliere ormai vuote. Poi occhieggia attraverso una tapparella della sua stanza: i corridoi dell’ospedale non solo sembrano deserti ma anche devastati. “C’è nessuno?”. In terra trova una chiave, apre la porta ed esce (il camice e le scarpe ospedaliere che indossa adesso non ci è dato sapere dove li ha trovati ma non è di alcuna importanza). Il nostro Cillian avanza per i corridoi, poi scende una scala, in un bello shot in campo lungo, tutto fuori equilibrio come distribuzione dei pesi nell’inquadratura, che ha lo scopo di sottolineare la solitudine del personaggio e il tono inquietante dell’atmosfera (2).

Una fila di cornette telefoniche pendono inutili dai loro apparecchi ormai morti. Non c’è linea. Totale dall’alto, dal punto di vista di una camera di sorveglianza: per aumentare la sensazione di realismo nello spettatore. Murphy beve una bibita in lattina presa da un distributore sfondato e poi ne fa scorta, mettendole in una bustina di plastica – che non è ecologica ma è geniale in termini di resa visiva ed emozionale (3).

Poi, passiamo in esterno. Un grattacielo inquadrato dal basso. Cillian che si affaccia. Non c’è un suono. Ed è l’assenza di suoni che ci anticipa che le cose sono finite molto male nel mondo reale. Londra è immobile. Silenziosa. Vuota. I campi lunghi abbondano per sottolineare la solitudine del personaggio che si muove in quest’ambiente surreale e spettrale. Entra la colonna sonora. Un pezzo rock in crescendo, solamente strumentale, che si fa via via, sempre più frenetico e angoscioso, seguendo il montare dell’ansia crescente. Qualche immagine da cartolina rivista dietro l’ottica dell’incubo post-apocalittico. Un autobus rovesciato. Soldi. Soldi lasciati in terra. Il nostro protagonista che li raccoglie perché, nonostante tutto, non è ancora disposto a credere alla situazione che i suoi occhi gli mostrano. Ancora scenari metropolitani deserti. Che cosa sta succedendo? Che cosa è successo? Ci avviciniamo ad un’auto. Scatta l’antifurto. È il primo suono della civiltà che sentiamo e facciamo un bel salto, assieme al nostro Cillian (4).

Un quotidiano raccolto da terra ci racconta gli ultimi giorni della società per come la conoscevamo. Evacuazione. Legge marziale. Sparare per uccidere. Poi siamo a Piccadilly Circus. Una parete di messaggi lasciati da persone che sono state costrette ad abbandonare la città (5).

La musica arriva al suo apice e si interrompe. Stacco. L’interno di una chiesa. Di nuovo nel silenzio. È piena di cadaveri. Murphy osserva la scena, stralunato, incredulo. “C’è nessuno?” (6)

Due uomini scattano in piedi. Lo sguardo allucinato. Non stanno bene. Un prete caracolla fuori dalla sua sacrestia. Si muove a scatti e fa versi strani. “Padre?”. Il prete si avvicina al protagonista e cerca di aggredirlo, lui lo colpisce con la sua bustina di plastica piena di lattine. “Che cosa ho fatto?!”, si chiede il nostro sopravvissuto, ma quando il prete di rialza e ha gli occhi rossi e lacrime di sangue che gli scendono lungo le guance (7).

Il senso di colpa scompare e scatta l’istinto di sopravvivenza. Bisogna fuggire. Figure veloci passano in primissimo piano, da una quinta all’altra. Si corre a perdifiato, adesso. Entrano in scena un gruppo di persone con indosso delle maschere anti-gas che lanciano delle molotov contro gli invasati che stanno spuntando da tutte le parti. Quelli prendono fuoco ma non si fermano. Esplode una pompa di benzina. Londra è inquadrata dall’alto. Grigia e nera. A parte le fiamme rosse (8).

Cala di nuovo la notte sulla città morta e, senza il bisogno di alcun dialogo, Danny Boyle e Alex Garland ci hanno raccontato tutto quello che c’era da sapere, senza sprecare nemmeno una parola. Magistrale.

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