Maureen (Kristen Stewart) è una giovane donna americana che vive a Parigi e lavora come personal shopper. Ha l’incarico di scegliere i vestiti ideali, con un budget stratosferico a disposizione, per una star esigente di nome Kyra. Maureen ha anche il dono di comunicare con gli spiriti. Cerca un contatto con l’aldilà per poter salutare definitivamente il fratello Lewis, recentemente scomparso, e per riappacificarsi con la sua perdita. Inizierà a ricevere ambigui messaggi inviati da un mittente sconosciuto. Entrerà in contatto con una presenza spettrale, ma non è sicura che si tratti di Lewis…
Olivier Assayas è sempre stato un regista interessato alla superficie delle cose, al valore del tempo come entità insieme concreta e soprannaturale e agli elementi, materiali e immateriali, che costellano le vite dei suoi personaggi e ne determinato l’immaginario. Dopo aver realizzato, con il precedente Sils Maria, una magnifica riflessione sull’identità contemporanea a cavallo tra due punti di passaggio fondamentali, da un lato la concretezza dell’ambizione e del desiderio (il divismo vecchia scuola, il narcisismo 2.0) e dall’altro l’immaterialità in continua, inarrestabile crescita dei nuovi media, sempre più invasivi e dunque sempre più impersonali, l’autore francese è tornato per l’ennesima volta alla matrice del suo cinema in Personal Shopper: vero e proprio contraltare del film precedente, del quale costituisce di fatto una costola, un ampliamento, perfino un fuori campo. Di Sils Maria, più che una b-side, per ricorrere a un paragone musicale, Personal Shopper è di fatto una ghost track. Con tutto ciò che ne deriva, in termini di inquietudine ma anche di fascino.
In Sils Maria Kristen Stewart era Valentine, giovane assistente di una diva dal passato glorioso e ingombrante, che spariva letteralmente dal film, forse smarrendosi tra le luminose nuvole del Passo del Maloja. Ed è come se il suo personaggio ritornasse in scena in Personal Shopper, gravato dall’invisibilità e dall’essenza cui l’uscita da Sils Maria l’aveva condannata: nella sua seconda collaborazione con Assayas nel giro di pochi anni la diva americana interpreta una ragazza che si autodefinisce una medium, che affronta la vita dal basso e controcorrente, esattamente come Assayas maneggia il thriller e la ghost story nel suo ultimo lavoro. Un avatar, svuotato e depresso, monocorde e impassibile, in grado di trovare un’identità solo vestendo il ruolo di qualcun altro (ovvero indossando gli abiti lussuosi di Kyra, la sua datrice di lavoro, che non vediamo mai), che usa lo smartphone come unica possibile estensione del proprio corpo.
È dunque un film sull’invisibilità, Personal Shopper, o meglio sul contrasto tra ciò che si crede di vedere (nel quotidiano, nella comunicazione, nell’assordante affermazione di se stessi) e ciò che accade lontano dalla nostra percezione e sotto l’incessante martellamento di notifiche, social, alter ego digitali. Una frattura, quella tra realtà percepita e realtà virtuale, al giorno d’oggi sempre più disfunzionale e fuori controllo, che il film di Assayas prova semplicemente a ricomporre, in maniera semplice, lineare, perfino spudoratamente ingenua e naïf: in fondo, si tratta solo e soltanto di un film su un personaggio che si ricostruisce, anche a partire dall’astrazione (i dipinti di Hilma af Klint), dal bisogno di esplorare le proprie dolorose e più intime incertezze. Prendendo di petto, senza sicurezze, i buchi neri di un presente privo di appigli che non trova pace per via di un passato preda di spettri, divisioni, malformazioni al cuore, traumi profondi e forse anche, chissà, di cordoni ombelicali spezzati.
Nel mostrare o forse nel velare tutto ciò il coraggiosissimo film di Assayas, che all’ultima edizione del festival di Cannes si espose ai fischi e ai fucili spianati, tallona Kristen Stewart, trasparente, androgina e diafana proprio come uno spettro, mettendone in scena una sorta di pedinamento enigmatico: il film è un atto d’amore al suo corpo e alla sua presenza scenica ma anche una sensuale e gelida indagine sulla sua bellezza e celebrità. Il regista francese sembra catturarne sottobanco l’icona mediatica, quasi come se ne inscenasse i fantasmi professionali (Twilight e la fama da teen idol) e quelli più ipoteticamente privati. Il tutto con la leggerezza e l’immediatezza di un cinema che si offre allo spettatore nudo e indifeso, chiedendo di essere accolto della sua preziosa e non facile densità e offrendo, in cambio, la possibilità di un viaggio catartico: un passaggio dal volto nero e oscurato di un inconscio a pezzi, esattamente come il volto di di Maureen nel magnifico e asserragliato prologo in una villa, a uno schermo, bianco e abbagliante, che consenta un riconoscimento di sé in piena luce. Vediamo sempre e solo Maureen, in Personal Shopper, con la Stewart che abita e veste ogni scena. O forse, al suo posto, parafrasando la rivelatrice e catartica battuta finale, ci siamo solo noi.
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