Salvatore “Toti” Bellastella (Sergio Castellitto) è un principe del foro dalla parlata forbita e dal grande impatto scenico, professore e gran signore degli avvocati italiani, dalla facciata rispettabile ma pieno di magagne processuali, scheletri nell’armadio, segreti scivolosi.
Antonio Bonocore (Guglielmo Poggi) è il suo assistente universitario tuttofare, un ragazzo dal curriculum giuridico incredibile ma schiavizzato senza vergogna da Bellastella, per il quale fa anche da cuoco stellato. L’abisso delle prevaricazioni, però, non conosce davvero fondo, a tal punto che Toti proporrà ad Antonio di sposarne l’amante argentina, Isabel (Clara Alonso), per farle ottenere la cittadinanza italiana.
Dopo aver sceneggiato il primo Smetto quando voglio, Valerio Attanasio ne firma una costola impazzita, una sorta di scatenato spin-off. Guglielmo Poggi, che nel film di Sibilia era Maurizio, studente che non pagava mai le lezioni del povero Pietro Zinni di Edoardo Leo, fa il salto e diventa un novello Trintignant de Il sorpasso in versione 2.0, succube disperato e frustrato, con una piroetta di casting riuscitissima e sorprendente dovuta in gran parte al talento del giovane attore.
Ma a rubare la scena, per forza di cose, è uno scatenato e incontenibile Sergio Castellitto, che si concede una maschera grottesca che viaggia a mille all’ora: un barone della giurisprudenza da avanspettacolo, spietato e beffardo, un vero e proprio cannibale del privilegio. L’attore romano, che ha fatto in tempo a lavorare con Monicelli e ad avere come maestro Marco Ferreri, non si risparmia mai e si ritaglia una delle maschere grottesche più estreme del cinema italiano recente, nella quale la cialtroneria e lo squallore flirtano col cartone animato, la follia con l’amarezza, il riso beffardo col disgusto. Con tanto di ciuffo untuoso, inventato direttamente da Castellitto sul set.
È senz’altro interessante constatare come, in seno alla factory di Smetto quando voglio, Attanasio sia riuscito a intavolare un oggetto comico industriale che, anziché citare a vanvera la commedia all’italiana come chiacchiera da bar di casa nostra sembra imporre, riesce a incorporarla nel proprio inconscio profondo, aggiornandola alla precarietà dei bisogni e degli istinti contemporanei (più disgustosi che agrodolci, quasi sempre). Senza attualizzarla a tutti i costi, senza forzarne i contorni, ma facendo emergere in filigrana modelli e valori, segni e lasciti.
Un coraggio che va oltre l’occhialino di Elena Sofia Ricci a Il vedovo di Dino Risi o il modo in cui Castellitto sintetizza, a detta del regista, l’Ugo Tognazzi di La giornata dell’onorevole e il Vittorio De Sica de Il vigile, con in più uno spessore antropologico inquietante e un’abilità performativa dal sapore gassmaniano. Il risultato è un romanzo di deformazione picaresco, con un giovane protagonista che già dal nome sembra uscito da un film di Totò, ma anche un prodotto che evita – vivaddio – delle prevedibili svolte sentimentali e intavola rimandi nemmeno troppo sotterranei all’opera buffa e a Il barbiere di Siviglia. Senza escludere mai la possibilità di virarli al nero, anche quando tocca rifugiarsi, per portare avanti la narrazione, nella soluzione non nuova della mafia da fumetto, delle sparatorie e dei parti in simultanea.
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