Martin Scorsese fa il suo ingresso nella Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica omaggiato da una standing ovation: il leggendario regista americano è pronto per raccontarsi al pubblico romano in un Incontro Ravvicinato che è anche l’assoluto culmine e la punta di diamante del programma di quest’anno della Festa del Cinema. Una clip introduttiva, collage dei suoi numerosi capolavori, immerge fin da subito la sala, popolata da tantissimi appassionati e volti noti, in un’atmosfera che più scorsesiana non si può: un montaggio serrato e tambureggiante, come da sempre è il suo cinema, barocco e travolgente oltre ogni confine e senso della misura.
«Un genio del cinema», lo definisce semplicemente il direttore artistico della Mostra Antonio Monda introducendolo e preparandosi ad accompagnarlo, domanda dopo domanda, nel commento di una serie di sequenze tratte dai film italiani della sua vita, cuore e format della serata. Sono i capolavori, a detta di Scorsese, che l’hanno segnato più di ogni altra cosa nel periodo della sua formazione e sono tutti inscrivibili nel decennio che va dal 1950 al 1960, con ogni probabilità l’età d’oro del nostro cinema. Delle scelte, senz’altro non semplici, che forniscono il tracciato ideale per quella che sarà una lezione di cinema frastornante.
Non una classifica, ma un compendio delle sue passioni e ossessioni personali e artistiche. Una cavalcata gonfia d’amore, lunga oltre un’ora e mezza, per il nostro cinema e le radici culturali e il patrimonio visivo del BelPaese. Tre dei film scelti sono ambientati in Sicilia, terra dei suoi avi (ma curiosamente sono diretti da un genovese, un napoletano, un milanese…) e Scorsese dice di averli visti tutti in due o tre anni, periodo nel quale la sua vita è cambiata per sempre, irreversibilmente.
Di seguito potete leggere quanto il regista di Taxi Driver ha dichiarato nel dettaglio, per ognuna delle opere selezionate, in ordine di apparizione. Parlando con passione, entusiasmo e la precisione analitica che solo un grande maestro che le ha vissute e assorbite in profondità, tanto da farne uno dei pilastri portanti della propria arte, può regalare.
1. ACCATTONE (Pier Paolo Pasolini, 1961)
Ho visto Accattone la prima volta alla Settimana della Stampa del New York Film Festival, nel 1963 o 1964. Un’esperienza forte, dura. Io sono cresciuto in un quartiere difficile di New York e il primo film che ho visto di cui ho memoria è Fronte del porto di Elia Kazan, relativamente alla dimensione dei personaggi. Con il film di Pasolini, però, è stata la prima volta in assoluto che mi sono identificato totalmente con dei personaggi.
Parlare di Pasolini è sempre difficile, sono stati scritti interi libri su di lui e probabilmente sapete già tutto, tanta critica lo riguarda. Io l’ho letto per la prima volta tutto dopo quindici anni: difficile, soprattutto le poesie, per me che non conosco la lingua, ma ce l’ho fatta. Quando vidi Accattone però non avevo la minima idea di chi fosse ed è stato per me un lampo, uno shock. Capivo in profondità le persone che abitavano il film e mi colpì la sua santità. Quando il protagonista pronuncia le parole “ho sofferto, ora sto bene”, la santità dell’animo umano emerge in tutta la sua forza.
Dove sono cresciuto io, essere un magnaccia, come il protagonista, era la forma di prevaricazione più disgraziata e negativa che si potesse immaginare. Alla fine Accattone muore tra due ladroni, uno dei due si fa il segno della croce, ma lo fa al contrario, e c’è anche la prostituta, Maddalena. La profezia dopotutto dice: “ruberai domani ma non avrai occhi per lacrimare e per piangere”. Anche la musica di Bach in sottofondo è straordinaria e dall’uso delle musiche di Pasolini, in generale, ho imparato moltissimo. Qui accompagnano la tragedia di una persona dimenticata, ma anche io in Casinò ho usato la musica di Bach, perché i personaggi vengono di fatto cacciati dal Paradiso.
2. LA PRESA AL POTERE DI LUIGI XIV (Roberto Rossellini, 1966)
Quando avevo cinque anni avevamo a casa un piccolo apparecchio televisivo, in cui vedevo i film del neorealismo italiano: Roma città aperta, Ladri di biciclette, Sciuscià. Per me non era cinema, mi sembravano la vita vera, come se stessero accadendo a New York in quel momento, a pochi passi dalla mia famiglia e dai miei nonni. Anche questo film l’ho visto al New York Film Festival, all’inizio non era stato accolto benissimo.
Rossellini ha reinventato il cinema con De Sica e Zavattini e poi con la Bergman, a un certo punto però ha avuto l’intuizione che la sua arte fosse troppo rivolta su se stesso e ha deciso di farne qualcos’altro, realizzando film didattici per la televisione su argomenti storici. Questo film è il primo di una serie ed è originale, straordinario, potentissimo. Vediamo Caravaggio e Velazquez nelle sue immagini, si concentra sempre su un dettaglio per farti imparare. Basta vedere come il re rifiuta il piatto di maiale che gli porgono alla fine.
Si potrebbe parlare ore e ore di Rossellini, ma ciò che mi preme è che lui riduceva tutto all’essenziale, scarnificava. Questo mi ha aperto gli occhi e mi ha indotto a realizzare film come Toro scatenato, Re per una notte e anche gli ultimi che ho realizzato, come Silence. L’ho incontrato una sola volta per caso in strada a Roma, nel 1970, era la mia prima volta in Italia. Ero con un selezionatore di un festival di cinema, è apparso davanti a noi mentre stavo parlando di lui con questa persona. Parlammo un attimo e mi disse: a me non interessa l’arte, ma l’istruzione. Gli dissi che era molto amato in America, ma a lui non importava affatto.
3. UMBERTO D. (Vittorio De Sica, 1952)
Credo sia il culmine e l’apice del neorealismo. L’ho visto tardi, a 17 anni. Dopo questo film la situazione e le sorti del filone sono totalmente cambiate. Fare un film in cui il protagonista è una persona anziana e mostrare come tutto è definitivamente cambiato rispetto a un mondo in cui ci si prendeva cura degli anziani è semplicemente straordinario. Il protagonista ha bisogno di mangiare, essenzialmente e utilizza il suo cane per farlo, in maniera utilitaristica. Di solito una persona che ha atteggiamento carino verso un animale diventa automaticamente sentimentale, ma qui il punto è semplicemente: facciamo lavorare il cane!
4. IL POSTO (Ermanno Olmi, 1961)
Il distributore del film, che possedeva le migliori sale di New York, lo amò talmente tanto che il primo giorno decise che lo avrebbe proiettato senza far pagare il biglietto! Lo stile di Olmi è scarno, sottomesso, povero. Seguiva uno stile documentaristico alla John Cassavetes, che sento molto vicino a me. In questo film c’è la disperazione post-guerra che è ormai sparita e si è dissolta, ma con essa vengono meno anche le promesse della società, segue l’industrializzazione, il lavoro in fabbrica, e poi la morte. Come se l’umanità venisse tagliata fuori.
5. L’ECLISSE (Michelangelo Antonioni, 1962)
Il primo film che ho visto di Antonioni è stato in realtà L’avventura e ho dovuto imparare come leggerlo. Sono cresciuto nell’età d’oro del cinema, coi classici del cinema americano ed europeo. Io sono di solito molto energico e veloce in quello che faccio, ma Antonioni mi ha permesso di soffermarmi su delle inquadrature davvero enormi con grande cura e L’eclisse in questo senso è il suo film che mi ha segnato di più.
Tuttavia ho imparato a guardare al cinema guardando L’avventura ripetutamente, dandogli il senso del ritmo e dello spazio. Per me quel film era come l’arte moderna, all’epoca. Molto probabilmente io l’arte moderna non la capisco e lo scrittore Richard Price mi diceva: «Qualsiasi cosa vada oltre la Madonna col Bambino tu non la capisci!».
Le linee delle inquadrature utilizzate da Antonioni ci mostrano l’alienazione, l’assenza di spirito, la mancanza d’animo. Con la sua trilogia di film, L’eclisse, L’avventura, La notte, ha rivoluzionato il linguaggio cinematografico ed erano delle opere che non potevano non portare a Blow-up e all’esplosione finale di Zabriskie Point.
6. DIVORZIO ALL’ITALIANA (Pietro Germi, 1961)
Quando ho preparato Quei bravi ragazzi mi sono ispirato a forma e contenuto di questo film, è vero. Mi ha ispirato lo stile ma anche l’umorismo, l’arguzia, persino il movimento della macchina da presa quando parla l’avvocato. Non lo vedo da tempo, forse l’ultima volta l’ho visto otto anni fa, ma ogni volta che lo rivedo mi colpisce l’utilizzo satirico di tutti gli aspetti, dal bianco e nero alla faccia di Mastroianni. Nella scena d’apertura si decantano le bellezze della Sicilia, ma subito dopo subentrano l’ironia ma anche la verità, perché le cose che vengono dette sono indubbiamente vere.
7. SALVATORE GIULIANO (Francesco Rosi, 1962)
Quando il bandito muore non è una madre che piange per il figlio morto, è la madre che lo fa. Rosi ti fa vedere i fatti, eppure, in qualche misura, i fatti non sono la verità. E le radici della corruzione vanno sempre più in profondità: sono le sofferenze del Sud, con tanti anni di dolore alle spalle. I miei nonni si trasferirono dalla Sicilia a New York nel 1910 e mi sono chiesto come mai non si fidassero di qualsiasi istituzione. Devo dire che la tradizione del Sud, con tutti quegli anni di eredità trascorsa, sono stati per loro un peso forse eccessivo.
Quando vidi Salvatore Giuliano non credevo ai miei occhi, perché a noi americani viene detto di non mostrare le emozioni, di non tirarle fuori. Si tratta di un film emozionante e intricato, con Rosi che stacca di continuo passando da un momento all’alto. Di Salvatore Giuliano vedi il suo corpo defunto ma anche tutto l’aspetto spirituale che lo circonda. La storia che diventa mito, il mito che diventa storia.
8. Il GATTOPARDO (Luchino Visconti, 1963)
Il Gattopardo mi ha senz’altro influenzato per L’età dell’innocenza, non c’è dubbio, perché in quel film volevo raccontare la qualità antropologica di quel tipo di vita altolocata: dal piccolo dettaglio al macrocosmo. Devo dire che la mia massima influenza per Toro scatenato, e vale anche per De Niro, è stata anche in quel caso un film di Visconti, Rocco e i suoi fratelli.
La sua opera, presa nella totalità che la investe, coniuga l’impegno politico con l’opera lirica, con un’idea di melodramma sfrenata, senza briglie, senza vincoli. In questo film abbiamo un ritmo meditativo, molto fermo, ma le inquadrature non sono scarne, sono ricchissime. Ne Il Gattopardo, dove si dice che «affinché tutto rimanga com’è, tutto deve cambiare», il principe Salina impara a doversi fare da parte, a sparire. Sostanzialmente a morire. Ultimissima cosa che ci tengo a dire: Donnafugata è la città d’origine di mia nonna!
9. LE NOTTI DI CABIRIA (Federico Fellini, 1957)
Il primo film di Fellini che ho visto è stata La strada, in tv, ma il finale di questo film è una cosa incredibile, è una rinascita spirituale. Fellini l’ho incontrato più volte negli anni: nei ’70, a metà dei ’70, poi nei ’90 sul set de La città delle donne che andai a visitare. Eravamo quasi arrivati a fare un progetto insieme, un documentario, o meglio quella che sarebbe stata la sua versione di quel documentario, ma purtroppo poi ci ha lasciati. Probabilmente sarebbe stato un documentario alla Fellini! Quando cerco le location per un film a volte mi capita di fermarmi solo perché vicino c’è un buon ristorante, anche se so che quel posto non lo sceglierò mai, proprio come faceva lui.
Quando arriva a quest’ultimo film, Scorsese si emoziona visibilmente nell’ammirare il finale del capolavoro di Fellini, prima di riprendere la parola e mascherare la commozione con una risata. Dopodiché saluta, indirizzando loro un bacio, gli scenografi tre volte premio Oscar (di cui uno per The Aviator, un suo film) presenti in sala, Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo.
Il finale dell’incontro è un coacervo di emozioni difficilmente gestibile: dapprima il mitico cineasta regala al pubblico l’emozione di riveder i titoli di testa di Toro scatenato, un altro dei suoi innumerevoli capolavori, alla sua presenza (non un momento da poco) e a seguire arriva il congedo che la Festa aveva in programma per lui, ovvero un premio alla carriera consegnato direttamente dalle mani di Paolo Taviani, che col fratello Vittorio, da poco scomparso, ha dato vita a uno dei sodalizi artistici più importanti del cinema italiano.
«Per me è davvero un grande onore premiare Martin, un amico mio e di Vittorio – dice il regista, con un sapiente e devoto discorso, porgendogli il riconoscimento – Io penso che sia uno di quei registi che appartengono a quella categoria poco frequentati di autori che coi loro film ci aiutano a capire chi siamo. Un lavoratore instancabile, di furibonda energia, dalla tastiera multiforme.»
«Ora è un demonio che fa pensare a Dostoevskij – continua Taviani – ora un innamorato dell’amore, ora un uomo pieno di problemi, ma comunque un santo. Non a caso Akira Kurosawa gli fece interpretare un Van Gogh tormentato e straordinario e una cosa che gli invidio è essere stato anche attore. La sua più grande dote, però, è la fiducia incrollabile che ha in se stesso. Stasera, con le sue parole, mi ha fatto riamare il cinema con l’entusiasmo della sua formazione. A nome di tutto il cinema italiano, grazie.»
Visibilmente toccato da queste parole, Scorsese trattiene le lacrime, ricambia l’affetto del pubblico e prima di allontanarsi lancia un segnale di speranza per il nostro cinema, con una luminosa apertura al futuro: «Chi può sostenga a livello produttivo i giovani registi italiani. Ce ne sono tantissimi di bravi.»
Investitura più autorevole non potrebbe esserci. Grazie, Martin.
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