Se n’è andato il 12 novembre 2018, all’età di 95 anni, Stanley Martin Lieber, alias Stan Lee, alias Stan “The Man”. Un nome, mezzo secolo di storia del fumetto americano e, per certi versi, anche del cinema supereroistico. Colui che, insieme a Jack Kirby, Steve Ditko, Bill Everett e altri disegnatori inventò l’universo Marvel e gran parte dei personaggi che lo popolano: i Fantastici Quattro, gli Avengers, gli X-Men, Daredevil, e ovviamente lui: Peter Parker alias Spider-Man, il “supereroe con superproblemi” per antonomasia. Una creazione che, nel 1962, segnò una svolta decisiva per il genere dopo due decenni di eroi praticamente invincibili.
Nato il 22 dicembre 1928, Lee è sempre stato legato alla città di New York, che scelse anche come luogo di residenza dei principali eroi Marvel, dando alle storie un’ondata di verosimiglianza che presso altre case editrici era meno presente. Il primo contatto con il mondo dei fumetti avvenne nel 1939, quando fu assunto come assistente presso la Timely Comics. Due anni dopo firmò il suo primo testo, per un’avventura di Captain America, e in quel momento nacque lo pseudonimo Stan Lee. Col passare degli anni la Timely divenne la Atlas Comics, e successivamente la Marvel, di cui Lee divenne rapidamente il volto e la voce: i suoi editoriali si rivolgevano direttamente ai lettori, e fu in quella sede che nacquero celeberrime espressioni come “Excelsior!” e “ ‘Nuff said!” (“Ho detto abbastanza).
Lee sosteneva di aver scelto un nome fittizio per le sue storie a fumetti in caso gli venisse mai concessa l’opportunità di scrivere un grande romanzo americano, che avrebbe poi firmato con il suo vero nome, ma nel campo “minore” degli eroi disegnati lasciò un segno indelebile. Basti pensare alla famosa disputa con il Comics Code Authority, l’organo di censura in vigore all’epoca, che non approvò una storia di Spider-Man incentrata sugli effetti negativi della tossicodipendenza. Lee, convinto che i lettori giovani potessero beneficiare di un racconto simile, pubblicò l’albo in questione senza il logo del Comics Code, che successivamente rielaborò la propria politica sui contenuti in base al contesto.
Quella della Marvel, grazie a Lee, fu una vera e propria famiglia, dove nessuno si sentiva escluso, anche per quanto riguarda le minoranze nelle storie stesse: gli X-Men, creati nel 1963, sono tuttora una grande allegoria della discriminazione e della paura del diverso (ma il loro creatore ammise anche di averli resi mutanti per pigrizia, per non doversi inventare ragioni diverse per l’origine dei loro poteri); con Black Panther venne introdotto il primo supereroe nero nella storia del fumetto americano, seguito a ruota da Falcon e Luke Cage; e Daredevil, cieco dall’infanzia ma dotato di poteri che compensano la vista mancante, dimostrò (e dimostra ancora) che un handicap non deve per forza essere limitante. Tutti i lettori, di qualunque età, potevano e possono riconoscersi negli eroi creati da Lee, a cominciare da Spider-Man, come ricordato anche nella trilogia di Sam Raimi quando alcuni lo vedono senza maschera: “È un ragazzino, poco più vecchio di mio figlio.”
Anche dopo aver posato la penna, tornando ai fumetti solo saltuariamente (nel 2002 fu assunto dalla DC Comics, concorrente della Marvel, per reinventare eroi come Batman e Superman in una serie di albi speciali), Stan Lee rimase il principale portavoce della Casa delle Idee: non mancava mai al Comic-Con di San Diego, e si prestò costantemente ad apparizioni in film e serie TV, solitamente nei panni di se stesso. Sarà difficile immaginare i film del Marvel Cinematic Universe senza la sua presenza simbolica e spesso ironica, come quando al termine di The Avengers esclamò “Supereroi a New York? Ma fatemi il piacere!”. Lo scorso anno, proprio per aver creato i personaggi dell’universo cinematografico della Marvel, fu scelto per far parte dei cosiddetti Disney Legends, ossia coloro che hanno contribuito in modo fondamentale al successo della Casa del Topo. Nel suo caso, quindi, una nota frase fatta può essere applicata letteralmente: un nome, una leggenda. ‘Nuff said.
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