«Su Internet mi hanno dato per morto, un’altra volta. Ancora è presto, ma prima o poi accadrà. Solo non capisco tutta questa fretta». Ironizzava così, sulla sua morte, Paolo Villaggio, di fronte all’ennesima bufala del web che ne annunciava la morte, com’è mesta e un po’ paradossale consuetudine da molto tempo a questa parte con svariati personaggi celebri. Ne parlava in un’intervista rilasciata al Fatto Quotidiano alcuni anni fa: «Vorrei scegliere io il quando e il come, ma vedo che non ci si può adeguatamente difendere dai maleducati da tastiera e Internet rimane un postaccio. Quindi mi metto l’anima in pace e mi godo il mio funerale». Graffiante e disincantato fino all’ultimo, anche al cospetto dell’idea della propria stessa morte, che si concedeva il lusso di prendere in giro, con la beffarda lucidità di sempre.
Era così, Paolo Villaggio: un comico e un artista irregolare, un creatore di forme, ancor prima che un grandissimo artefice di personaggi memorabili. L’immedesimazione del pubblico nelle sue incarnazioni, per quanto grottesche e deformate oltre ogni limite, era totale e non è affatto un caso. L’irriverenza di Villaggio si sintonizzava sulla realtà nella maniera più penosa e onesta possibile, non risparmiava piccolezze e meschinità, ma permetteva a ognuno di noi di rivedersi in una mediocrità raccontata con un tocco satirico ruvido eppure leggerissimo. E in quanto tale poetico, astratto, innamoratissimo e insieme sconcertato dalle proprie continue, fulminanti invenzioni.
Il ragionier Ugo Fantozzi, la sua creatura giustamente più celebre e riconosciuta, che tutti conoscono e nel quale tutti, in un modo o nell’altro, si riconoscono, era una perfetta sintesi del genio di Villaggio, l’alter-ego per antonomasia dell’italiano medio, del suo servilismo, della sua sottomissione ridicola al potente e soprattutto al Fato di turno. Una maschera meschina, esilarante e a suo modo straziante e rabbrividente, in grado, a partire dalla metà degli anni ’70, di farsi autobiografia di un sentimento popolare, di un modo di stare al mondo, oltre che specchio riflettente dell’umanità tutta, in senso lato e in quanto tale. A metà tra Gogol e il signor Travet, l’amarezza esplosiva e crudele di Fantozzi (il primo film della saga, ancora oggi, è un compendio inarrivabile e pirotecnico di trovate surreali) è un classico destinato a durare nel tempo, istantanea perfetta di una spietatezza nella quale c’era molto di Villaggio stesso, della sua intelligenza e della sua lucida amarezza.
Lo stesso distacco dalla vita, amaro e un po’ sbilenco, che trapelava in tante interviste ma pure nei suoi straordinari libri, perché Villaggio è stato anche uno scrittore fulminante e capacissimo, abile nel dare alla parola scritta la stessa generosità esilarante delle sue incarnazioni cinematografiche e televisive: tra le tante, impossibile non ricordare, sul piccolo schermo, il professor Kranz, indisponente prestigiatore “tedesco di Germania”, e Giandomenico Fracchia, altro ragioniere ancorato a una mala sorte dal sapore patologico. Aveva lavorato anche con autori importanti del nostro cinema, Villaggio: Marco Ferreri (Non toccare la donna bianca), Lina Wertmüller (l’irresistibile Io speriamo che me la cavo), Ermanno Olmi (Il segreto del bosco vecchio, dimenticato e da riscoprire), Federico Fellini (La voce della luna). Fellini, in particolare, ne aveva sottolineato a più riprese il valore (forse da troppi dimenticato, anche in tempi più recenti), facendo nel suo ultimo film un utilizzo estremamente malinconico della sua fisicità, della sua smorfia, delle sue doti d’attore, in un’opera anch’essa estremamente disillusa e un po’ funerea.
Era stato profetico e rivelatore, Villaggio, nel corredare idealmente ciascuno di noi di una sfigatissima nuvoletta, di congiuntivi improbabili e obblighi succubi, vergognosi e sempre più alienanti, nel parlare di posto fisso con toni apocalittici e mai buonisti. Ci lascia in eredità un cinismo prezioso, che sapeva farsi sguardo sul mondo e chiave di lettura illuminante, senza tramutarsi in astio bilioso né tantomeno in ironia ammiccante e a buon mercato, facilona e dunque puntualmente innocua. Una lezione più che mai fondamentale, specie di questi tempi.
Ecco una galleria delle memorabili interpretazioni dell’attore e comico genovese.
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