Un Suv indistruttibile o quasi: Ivan Silvestrini ci parla di Monolith
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Un Suv indistruttibile o quasi: Ivan Silvestrini ci parla di Monolith

Il regista ci racconta la genesi del progetto, la lavorazione negli Usa e tutte le difficoltà nel gestire sul set una vettura "virtualmente" inscalfibile, ma in realtà molto delicata...

Un Suv indistruttibile o quasi: Ivan Silvestrini ci parla di Monolith

Il regista ci racconta la genesi del progetto, la lavorazione negli Usa e tutte le difficoltà nel gestire sul set una vettura "virtualmente" inscalfibile, ma in realtà molto delicata...

Il progetto di Monolith è qualcosa di particolare, un crossover tra cinema e fumetto, puoi spiegare meglio di cosa si tratta?
«Monolith nasce come un particolare incrocio tra questi due media perché lo stesso soggetto ideato da Roberto Recchioni è stato sviluppato in parallelo da team differenti sia in forma cinematografica sia come graphic novel. Questo, senza svelare le differenze tra le due storie, rende molto più interessante la fruizione di entrambi i supporti perché le vicende si completano senza appunto ripercorrere lo stesso viaggio. Gli eventi sono simili ma i personaggi combattono contro demoni differenti».

Puoi raccontarci dell’esperienza a Los Angeles e i vari step che avete attraversato nella lavorazione del film?
«L’avventura è cominciata a Roma negli uffici della Lock & Valentine, dove insieme a Lorenzo Ceccotti, mentre terminavamo la sceneggiatura di Mauro Uzzeo, abbiamo iniziato a elaborare i primi design di questa macchina, di questo SUV corazzato: Lorenzo ha realizzato in maniera fotorealistica le prime concept art, e al contempo, abbiamo cominciato a lavorare sullo storyboard. Nel film c’è un mix di riprese reali e altre realizzate in CGI, altre ancora sono una combinazione di entrambe le tecniche. Il risultato è stato eccezionale».

A che veicoli vi siete ispirati per la Monolith?
«La nostra Monolith è stata allestita sulla base di una Ford Explorer di cui è rimasta solo la base, la scocca mentre gli interni sono stati costruiti seguendo le indicazioni di Ceccotti. Nel film la macchina è inscalfibile, ma nella realtà era delicatissima. Anzi, ci sono stati momenti di panico sul set perché durante alcune scene si era danneggiata e dovevamo ripararla in tempo reale… Per fortuna sul posto abbiamo trovato un team di super carrozzieri che in poche ore riuscivano rimettere in sesto il tutto per il ciak successivo. Poi un aneddoto divertente è stato quando, verso la fine delle riprese, il produttore Davide Luchetti, che non somiglia per nulla alla protagonista del film, era diventato talmente geloso, affezionato e paranoico nei confronti dell’auto, che ha deciso di guidare lui stesso in una delle manovre più rischiose… Avevamo a disposizione uno stunt driver, ma lui non si è fidato, aveva troppa paura che si danneggiasse (ride)».

Come è stato lavorare sul set con Katrina Bowden e soprattutto quanto è stato difficile gestire i due gemelli che hanno interpretato il piccolo David?
«Lavorare con Katrina è stato eccezionale, è un’attrice super preparata e molto professionale. L’avevo incontrata per la prima volta a New York poco prima delle riprese ma lei aveva già preparato la parte in maniera ineccepibile. Oltretutto si è dimostrata anche coraggiosa, perché non ha quasi mai utilizzato stunt, e si è posta anche in situazioni rischiose per aumentare l’impatto emotivo del film. L’abbiamo scelta perché il personaggio di questo film è molto delicato. Non ci sono particolari elementi per empatizzare con lei inizialmente, anzi, può anche risultare antipatica. Ma durante la storia dobbiamo portarla esattamente sul versante opposto , ovvero fare in modo che il pubblico faccia il tifo per lei. Una trasformazione che ho intravisto possibile nel suo provino. Anche per i gemelli Rogers non potrei essere più felice del risultato ottenuto. Sono stati una benedizione. Lavorare coi bambini non è mai facile: ogni singola reazione o azione che loro compiono all’interno del film non era una risposta a dei comandi di regia ma era tutto frutto di un gioco, frutto di un lavoro di avvicinamento – sono diventato una sorta di zio – ogni reazione era uno stimolo a un gioco di ruolo pensato per ogni singola scena, non è stato affatto semplice. Pensate che ad esempio, nelle scene notturne, Katrina recita nel deserto, mentre loro sono in un teatro di posa e abbiamo ripreso le varie scene a distanza di giorni».

Che messaggio sta alla base di Monolith? C’è anche una critica verso i genitori della nuova generazione che spesso, invece di trascorre e del tempo con i propri figli, delegano troppo alla tecnologia?
«Ovviamente si, c’è innanzitutto un tema centrale sulla tecnologia, che secondo me non può essere buona o cattiva. Il punto invece è su come viene impiegata. Se continuiamo a delegare sempre più aspetti della nostra vita alla tecnologia senza approfondirne gli effetti può davvero trasformarsi in un problema. Spesso non approfondiamo il funzionamento delle cose, non ci interessiamo davvero a quello che stiamo facendo. Il film parte da questa idea e racconta poi di come anche la maternità venga dipinta come un’esperienza sempre positiva, mentre invece può avere risvolti inattesi, come i demoni con cui si scontra Sandra… Paure e incertezze con cui ogni genitore, e soprattuto le donne, si scontrano nel momento in cui diventano madri. Lei è molto giovane, la maternità le cambia la vita radicalmente: il nostro spirito poco incline al sacrificio spesso ci rende profondamente inadeguati ad accettarla, spinge a un cambiamento che siamo sempre meno propensi ad accettare. Affrontare questi demoni e sconfiggerli è sicuramente un passaggio necessario per poter diventare dei genitori migliori».

 Foto: © Sky Italia/Lock & Valentine/Sergio Bonelli Editore

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