Un tranquillo weekend di paura Roberto Recchioni ricorda il film di John Boorman
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Un tranquillo weekend di paura

Un film inquietante e sinistro che, per i temi trattati, ha segnato un'epoca

Un tranquillo weekend di paura

Un film inquietante e sinistro che, per i temi trattati, ha segnato un'epoca

Nel dare vita a questa rubrica, che si pone l’obiettivo di rinfrescare la memoria su pellicole classiche che tutti dovrebbero conoscere, ho sottovalutato un problema su cui la critica dibatte da anni: che cos’è un classico e quali sono i parametri per identificarlo? Senza starci a pensare sopra troppo si potrebbe dire che sono “dei classici” tutti quei film che, grazie alla loro qualità e al loro impatto culturale, hanno lasciato un segno profondo nella cultura. Eppure ci sono pellicole meravigliose che non hanno segnato in maniera significativa il loro tempo, ma che riteniamo comunque dei classici del cinema. Per dirne uno: A piedi nudi nel parco di Gene Saks e Neil Simon dei tardi anni Sessanta. Ritenuto un classico delle commedie sentimentali, non può certo essere definito come un’opera che ha lasciato un’eredità culturale significativa. Di contro, ci sono pellicole magari ritenute modeste alla loro uscita, che hanno però intercettato lo spirito della loro epoca e si sono impresse a fuoco nell’immaginario collettivo. Rambo di Ted Kotcheff, per esempio. Altre volte ancora ci sono film che, alla loro uscita, sono stati salutati come dei classici istantanei e che per un paio di generazioni diventano “indimenticabili”, ma che poi sono scoloriti nella memoria.

Un tranquillo weekend di paura di John Boorman fa, purtroppo, parte di questo genere di film. Pellicola fondamentale per le generazioni nate tra la metà degli anni ’40 e gli anni ’80, largamente ignorata in tempi modermi, Deliverance (titolo originale) è l’adattamento cinematografico di un romanzo di James Dickey, poeta e veterano di due guerre, noto per il carattere burbero e la forte integrità artistica che, grazie alla storia di di quattro amici in canoa che decidono di scendere il fiume Cahulawassee, si ritrova catapultato nel pazzo mondo di Hollywood.

La versione cinematografica del romanzo doveva essere in origine diretta da Sam Peckinpah e la lista di attori chiamati per interpretare i protagonisti comprendeva gente del calibro di Gene Hackman, Marlon Brando, Jack Nicholson, Robert Redford e molti altri. Poi quel pazzo geniale di Peckinpah venne scartato e al suo posto arrivò il più affidabile John Boorman, assieme a Burt Reynolds, Jon Voight, Ronny Cox e Ned Beatty. La storia della realizzazione del film è caratterizzata da vari momenti surreali: la rissa sul set tra un Dickey furioso e ubriaco, e Boorman, reo di aver riscritto parte della sceneggiatura alle spalle dello sceneggiatore, che costò al regista un naso rotto e la perdita di quattro denti (i due, dopo, divennero grandi amici e Dickey interpretò anche un cameo nel film). La sfida tra gli attori protagonisti che si erano messi in testa di eseguire da soli i loro stunt, senza alcuna assicurazione per la produzione (e Reynolds si fratturò il coccige). Le famigerate riprese della scena dello stupro, con la famosa frase “strilla proprio come un maiale” che Boorman volle inserire per forza, in barba alle pressioni censorie (a conti fatti, si scoprì che il regista inglese non era poi così tranquillo e gestibile come si credeva). E poi, ovviamente, la famosa scena con il banjo, in parte scritta e in parte improvvisata sul set.

Ma questa è aneddotica che del valore di quest’opera ci dice poco. Perché Deliverance è un classico che non andrebbe dimenticato? Intanto, per i suoi temi: il rapporto tra l’uomo e la natura, la tribalità, i riti di passaggio di una certa mascolinità (tossica?), la violenza e le sue conseguenze. Poi per la sua atmosfera inquieta, tetra e sinistra, tipica di un certo cinema americano di quegli anni. Infine, e specialmente, per il suo linguaggio, perché Un tranquillo weekend di paura è una pellicola che vive di poche parole e molte immagini. Tutto il suo raccontato è servito allo spettatore attraverso gli strumenti più puri della macchina cinema, senza didascalismi o stampelle narrative di sorta. I personaggi, lo spazio, il movimento, e le camere a riprendere quanta più verità possibile. Asciutto, essenziale, dinamico. Un fi m che traduce in termini commerciali e alla maniera di Hollywood, quanto teorizzato e poi messo in pratica dalla Nouvelle vague francese. Cinema nella sua forma più pura e autoriale possibile, pur essendo “solamente” un thriller su quattro uomini in canoa.

Tre motivi per definirlo un classico

  • Perché la sola scena del duello musicale vale la visione
  • Perché e una delle migliori testimonianze di come il cinema commerciale americano degli anni ’70 fosse riuscito a declinare le istanza del cinema autoriale e di rottura europeo e a farle proprie
  • Perché è una messa in atto del più importante dei precetti della narrazione: mostrare, non raccontare

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