Cosa succede quando la persona che ami muore tra le tue braccia, quando il tuo petto è il posto più sbagliato in cui può venire a mancare? A partire da questo interrogativo doloroso e straziante, il talentuoso regista cileno Sebastián Lelio ha sviluppato, nel suo nuovo film Una donna fantastica, la storia di Marina, una transessuale che perde all’improvviso Orlando, il suo grande amore, e dovrà fare i conti con la sofferenza della sua perdita e l’ostilità carica d’odio e di rancore della famiglia di lui, che era all’oscuro della loro relazione.
Abbiamo incontrato e intervistato Lelio a Roma, dove si è svolta la presentazione del film (Una Mujer Fantástica il titolo originale) che arriverà nelle sale italiane il prossimo 19 Ottobre distribuito da Lucky Red. Occhi azzurri e riflessivi, sguardo pensoso ma penetrante, e una grandissima consapevolezza del proprio lavoro e degli obiettivi della propria arte, scanditi con parole precise che traboccano d’intelligenza. Un autore giovane ma già consacrato, sul quale scommettere per il futuro: ha in cantiere un remake hollywoodiano del suo successo Gloria, che avrà per protagonista Julianne Moore, e il film in lingua inglese Disobedience, con Rachel Weisz, Rachel McAdams e Alessandro Nivola.
Il suo ultimo Una donna fantastica, premiato come miglior sceneggiatura allo scorso Festival di Berlino, è un film generoso, toccante e mosso da un gigantesco pathos, un melodramma vibrante vagamente alla Pedro Almodóvar, che sembra spingersi in quelle zone dolenti e tormentate, per quel che riguarda l’esplorazione della sessualità e dell’identità, in cui il celebre regista spagnolo da tempo non mette piede con questa grandezza.
Come hai incontrato Daniela Vega, la protagonista di Una donna fantastica? La sua è un’interpretazione a mio avviso strepitosa, per misura, emotività, uso del corpo.
Daniela è una forza della natura, il personaggio nel film è una cantante lirica proprio perché lei lo è. L’incontro con lei mi ha cambiato la vita, siamo diventati amici sentendoci su skype, è stata generosissima con me. Daniela è una transessuale vera e oggi è una figura pubblica, lo è diventata immediatamente dopo l’uscita del film, tra ospitate nei talk show e altre apparizioni pubbliche. Credo che la società cilena, almeno una parte, fosse pronta finalmente ad accettare una figura come lei, ad assorbirla. Dopotutto oggi giri per il Cile e trovi le gigantografie di una transgender!
Qual è per te il tema portante del tuo film?
Il fatto che Daniela sia una transgender è sicuramente alla base delle contraddizioni che il film prende in esame. Ma il mio è soprattutto un film sui limiti dell’empatia, avrebbe potuto essere una cosa completamente diversa e mi auguro che venga vesto per un film che va oltre l’essere o non essere transgender, con un’eco che sia specchio di una qualsiasi situazione di fragilità: una sorta di cavallo di Troia pieno di umanità. Il mio film parla di quanto siamo disposti a concedere agli altri. Può anche darsi che alcuni rapporti sentimentali siano più o meno legittimi di altri, a livello sociale, ma chi può stabilirlo? Volevo parlare della condizione della società umana oggi, dei confini della lealtà. La lealtà si ferma alla famiglia, alla società, alla religione, alla razza? Dove abita davvero? La famiglia è una parte importante del mio film, ma è qualcosa da cui bisogna sempre distanziarsi per esistere davvero.
Vale anche per te, che sei un regista oramai globale più che locale, potremmo dire. Stai anche lavorando al remake del tuo Gloria con Julianne Moore…
Andare all’estero mi permette di vedere tutto con occhi nuovi. L’unico modo per essere universale per me è guardare al mondo specifico e circoscritto che ti sta intorno con la massima attenzione. Al remake hollywoodiano di Gloria con Julianne Moore stiamo lavorando sodo, sulla sceneggiatura, inizieremo a girare prima possibile.
Il tuo è un film che cambia spesso anima, quasi a suggerire una specie di assunto politico allo spettatore: la diversità mostrata attraverso un approccio stilistico anch’esso alternativo, mai monolitico, coi generi e le forme ad influenzarsi continuamente tra loro. Che ne pensi?
Sono assolutamente d’accordo, devi sempre essere politico perché altrimenti cadi nell’errore di quei film che parlano di rivoluzione e sono super convenzionali. Il mio è un thriller, una ghost story, un horror, un film romantico, uno studio di carattere, a tratti c’è del realismo magico, poi echi di Buster Keaton o Busby Berkeley, nel mio piccolo. In questo credo sia un film fortemente contemporaneo proprio perché incatalogabile, cambia sempre tono, fino al climax finale.
Che direzione hai dato, dunque, al copione nello scriverlo?
Volevo un film che fosse anch’esso “trans-genere”, imprendibile, collegato all’identità della protagonista, che fosse impossibile da ricondurre in un solo territorio e che allo stesso tempo portasse la sceneggiatura in delle zone per me continuamente sconosciute. Il progetto mi ha chiesto a chiedermi cos’è una donna ma anche cos’è un film, attraverso un’opera che si mette continuamente in dubbio, che si interroga su stessa, su come l’identità è forgiabile e modificabile. La parola per l’identità sessuale e lo stile narrativo dopotutto è la stessa: genere. Volevo offrire allo spettatore un viaggio totale, in questo senso.
Il tuo è anche un film politico sul tema del corpo: noi spettatori ci identifichiamo col corpo della protagonista – un corpo sexy, che sta cambiando – e siamo portati al riflettere sul nostro, di corpo, in relazione a chi siamo e alla nostra identità sessuale e non.
Vero, in un certo senso. Volevo dire allo spettatore: guardala, guardala, guardala. Finché non sentirai attraverso di lei. Il corpo è innanzitutto un campo di battaglia, e in quanto tale è politico al massimo grado.
Sei un regista che ama la musica, ma nei tuoi film sembra ci sia un vero e proprio pattern musicale anche attraverso i dialoghi. La musica nei tuoi film sembra una performance emotiva per l’anima dei tuoi personaggi.
Gloria è un film che non aveva colonna sonora, ma solo canzoni suonate in scena in discoteca. Non ho una risposta in realtà, sarà che adoro la gente che suona o che danza, ne sono attratto visceralmente. La musica può anche essere considerata un fil rouge per la narrazione dei miei film, mettendola insieme in fila puoi comporre un flusso e un arco autonomo.
Usi anche il colore in un modo incredibile, mischi il rosso e il blu nella stessa immagine in Una donna fantastica, come fossimo in un melodramma di Fassbinder.
Fassbinder è un regista che amo, ma non è nel pantheon spirituale di questo film. Certi colori però corrispondono a certi messaggi ed è così che intendevo usarli. Gli emarginati sono sempre mostrati in bianco e nero e la luce naturale in tanto cinema, volevo un approccio estetico completamente diverso, era un dovere per me. Come quando senti My Sweet Lord di George Harrison suonata da una sola chitarra e poi con più strumenti mischiati tutti insieme. Il mio approccio flamboyant è stato perfettamente voluto e consapevole, volevo una paillette a livello cromatico in determinate immagini che fosse autenticamente fiammeggiante.
Tra i produttori del tuo film ci sono anche Pablo Larraín e Maren Ade, la regista di Vi presento Toni Erdmann. Il primo è cileno come te e direi che lo conosci bene, ma si tratta comunque di due nomi di punta del nuovo cinema d’autore mondiale.
Potremmo dire che è una trans-produzione! (ride, ndr). Pablo lo conosco da tantissimi anni, siamo amici fraterni. Mi sono trasferito a Berlino da alcuni anni, da lì viene il gancio con Maren Ade: lei e i produttori della sua società hanno visto Gloria e mi hanno detto: quando vorrei lavorare con noi, sai dove trovarci! Tutto ciò oltretutto prima di Toni Erdmann. Dopo il successo di Gloria come puoi capire non ho potuto che cogliere la palla al balzo…
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