Una montagna russa di azione, ironia ed eleganza. La recensione di Kingsman: Secret Service
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Una montagna russa di azione, ironia ed eleganza. La recensione di Kingsman: Secret Service

Matthew Vaughn firma una lettera d’amore ai vecchi spy-movie con un film che trascina lo spettatore in un vortice di violenza iperbolica, ironia nera e personaggi esageratamente sopra le righe. Protagonista: un Colin Firth più scatenato che mai

Una montagna russa di azione, ironia ed eleganza. La recensione di Kingsman: Secret Service

Matthew Vaughn firma una lettera d’amore ai vecchi spy-movie con un film che trascina lo spettatore in un vortice di violenza iperbolica, ironia nera e personaggi esageratamente sopra le righe. Protagonista: un Colin Firth più scatenato che mai

«Dai, regalami una storia assolutamente improbabile come quelle dei vecchi film di spionaggio!». Oppure: «i Bond del passato? Straordinari, e il merito era anche di quei villain così assurdi». O ancora: «è davvero un peccato che gli 007 di oggi siano diventati così seri. Un tempo ci si divertiva di più». Queste le battute scambiate durante un’esilarante “cena dell’assurdo” con posate d’argento, bicchieri di cristallo e menù a base Big Mac (sic) tra l’impeccabile agente segreto Colin Firth e il suo rivale, ovvero l’eccentrico miliardario, di smoking e sneaker vestito, col volto allucinato di Samuel L. Jackson. Una scena gustosa (e non certo per le portate di McDonald’s…) che racchiude il cuore del film: Kingsman: Secret Service è infatti una lettera d’amore ai vecchi spy-movie, quelli strapieni di gadget, con trame irrealistiche pilotate da megalomani del male e con toni ben lontani dalla deriva dark “à la Bourne” degli ultimi tempi. Da appassionato del genere, il regista Matthew Vaughn l’ha rivisitato infarcendolo di riferimenti pop in un film che è innanzitutto divertito e divertente. Un mix tra James Bond e Tarantino, si è detto, che trascina lo spettatore su una montagna russa di violenza iperbolica, ironia nera e personaggi esageratamente sopra le righe: alla fine se ne esce frastornati, poi si fanno due passi e l’effetto svanisce ma, comunque, ne è valso il prezzo del biglietto. E come il Big Mac servito per la cena citata, Kingsman: Secret Service è strapieno e debordante: accendini-granate, ragazze sinuose con protesi alla Pistorius, sesso anale, calci e pugni a volontà tra le panche di una chiesa, un plot improbabile – appunto – e distruzioni su scala globale innescate da un cattivo che pigia bottoni un po’ a caso con tanto di esplosioni al ritmo di musica da far invidia a Il dottor Stranamore. È puro divertissementVaugh prende in giro e celebra il genere per puro gioco. Un meccanismo simile a quello già attuato con Kick-Ass sui cinecomic senza però – va detto – raggiungerne la scanzonata genialità. E decisamente eccessivo è dunque il paragone fatto da Indiewire con The Cabin in the Woods.

Tratto dall’omonimo graphic novel di Mark Millar e Dave Gibbons, Kingsman: Secret Service racconta di un’associazione di servizi segreti composta da spie gentiluomini: moderni cavalieri della tavola rotonda, purissimi snob che riconoscono un whisky Dalmore del 1962, indossano solo camice con gemelli, sfoggiano un eloquio forbito e nascondono la loro base operativa in una sartoria di Savile Row a Londra. Perfetto Kingsman è Harry Hart, nome in codice Galahad (Colin Firth) che dovrà trasformare un teppistello di periferia in una nuova, infallibile spia: parte così una storia d’iniziazione, un addestramento tra Full Metal Jacket e Pretty Woman (o My Fair Lady) in cui il ragazzo imparerà a buttarsi senza paracadute ma anche a conversare da perfetto aristocratico. Il conflitto di classe, del resto, attraversa l’intero film ed è stato in qualche modo alla base del fumetto nato appunto da un retroscena di Agente 007 – Licenza di uccidere: il regista Terence Young aveva scritturato Sean Connery contro il volere dello scrittore Ian Fleming spinto anche dalla sfida di plasmare quel “rozzo ragazzo di Edimburgo in un gentleman” tanto che, prima di iniziare le riprese, lo portò “nei suoi ristoranti preferiti insegnandogli tutto, a mangiare e a vestirsi”.

E a proposito di abiti, com’era immaginabile, Kingsman: Secret Service è un film cucito su misura per Colin Firth: l’attore è l’incarnazione assoluta dell’eleganza British, nessuno ha un physique du rôle più perfetto, oltre a una sottile autoironia (in passato il suo nome è stato tirato in ballo come possibile James Bond mentre quegli occhiali alla Harry Palmer sembrano quasi una citazione involontaria di A single man dove era stato diretto dallo stilista Tom Ford). Se dunque il raffinato portamento di Firth era dato per scontato, vederlo così a proprio agio nelle scene d’azione è stato sorprendente: dopo essersi allenato per sei mesi per tre ore al giorno, l’attore ha interpretato l’80% delle sequenze action. Con un risultato ineccepibile.

Accanto a lui, convince anche il villain interpretato da Samuel L. Jackson: un mix di personaggi (shakerati non mescolati) tra il dottor Male di Austin Powers e uno Steve Jobs vestito come Spike Lee. Un magnate delle nuove tecnologie che, deluso da inefficaci politiche ecologiste, decide di salvare la Terra eliminandone il virus letale: la razza umana… Insomma un personaggio ambiguo che, oltre a far ridere per le proprie idiosincrasie (è un killer di massa che non sopporta la vista del sangue), veicola un messaggio non banale sul controllo della società da parte delle industrie di telecomunicazione, perché nessuno ti regala Giga di internet senza avere nulla in cambio…
Molto azzeccato, infine, il casting della giovane recluta: Taron Egerton, attore 24enne gallese che, fresco di scuola di recitazione trovato dopo una lunghissima selezione su 60 pretendenti e qui al suo debutto su grande schermo, ha retto bene il confronto con un gigante come Colin Firth. E come già con Chloë Grace Moretz e Jennifer Lawrence, Matthew Vaughn conferma ancora una volta il suo infallibile fiuto in fatto di star nascenti. Peccato quindi che il film abbia una scrittura un po’ ridondante lungo le due ore, con uno script costruito su una manciata di grandi scene a cui si arriva però con strade un po’ tortuose, e a volte un po’ noiose.

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