Il suo cognome è difficile da pronunciare, ma non da ricordare. Così come il suo volto, di una bellezza particolare in cui si distinguono i tratti tedeschi ereditati dal padre. Alba è una ragazza timida, di poche parole, perla rara in un mondo dove l’esposizione conta. A parlare per lei sono il talento e i traguardi raggiunti nel giro di un decennio (o poco meno), tra cui due David di Donatello (per Giorni e nuvole e Il papà di Giovanna) e un Nastro d’argento (per La solitudine dei numeri primi). Senza legarsi a un regista particolare (sebbene a ottobre uscirà Il comandante e la cicogna, sua terza collaborazione con Silvio Soldini), ha lavorato con grandi autori del nostro cinema, da Carlo Mazzacurati, con cui ha esordito nel 2004 in L’amore ritrovato (anche se di fatto la sua prima esperienza cinematografica è in Kiss me Lorena, primo lungometraggio indipendente del gruppo comico toscano I Licaoni), a Luca Guadagnino: Alba Rohrwacher era nel cast del suo Io sono l’amore. Dal Daniele Luchetti di Mio fratello è figlio unico a Giorgio Diritti, che l’ha diretta ne L’uomo che verrà, fino a Marco Bellocchio che, dopo Sorelle Mai, l’ha (ri)voluta in Bella addormentata, il film ispirato alla vicenda di Eluana Englaro che è in concorso alla 69ma Mostra di Venezia.
In questi giorni è a Palermo sul set di Via Castellana Bandiera, opera prima di Emma Dante, tratta dal suo omonimo romanzo, «un’esperienza iniziata da poco e di cui sono già molto felice».
Dal momento che di questa nuova avventura non può fare anticipazioni, parliamo di Bella addormentata. È stato più volte ribadito, soprattutto dal regista, che non si tratta di un film su Eluana. Eppure quel titolo sembra riferirsi a lei…
«Il film racconta tre storie che si svolgono nei giorni in cui Eluana Englaro venne trasferita da Lecco alla clinica La Quiete di Udine. Nella pellicola la vicenda rimane sullo sfondo, scandita dalle immagini dei telegiornali. Le vite dei personaggi, riprese in quei sei giorni, sono legate più o meno indirettamente al caso Englaro».
Maria, il suo personaggio, è coinvolto piuttosto direttamente.
«Maria è una ragazza cattolica che in quei giorni manifesta davanti alla clinica La Quiete. È in conflitto con il padre, un senatore del PdL, interpretato da Toni Servillo, che proprio negli stessi giorni è chiamato a votare in Parlamento il provvedimento Sacconi riguardante le norme per l’idratazione e l’alimentazione forzate».
Anche lei, come Maria, avrebbe voluto continuare a mantenere in vita Eluana attraverso le macchine?
«Io ho una storia e idee differenti, la mia è una posizione laica. Ma penso che ogni caso vada valutato singolarmente. La morte è qualcosa di talmente grande e sconosciuto che è impossibile dire cosa fare. Credo nella libertà dei singoli individui, nel rispetto delle posizioni altrui, nel silenzio e nella protezione del dolore. Il ricordo che ho di quei giorni? Mi sono chiesta come sostenessero i protagonisti della vicenda tutto quel rumore, ho provato fastidio per l’invadenza mediatica. E alla luce di tutto questo la battaglia condotta da Peppino Englaro è stata molto coraggiosa e necessaria. Soprattutto in un Paese come il nostro, dove il contesto culturale e politico spesso limita la libertà del singolo. Peppino Englaro ha lottato non solo per sua figlia ma per tutti coloro che hanno vissuto o vivono la sua stessa dolorosa esperienza».
Davanti alla clinica e accanto agli attivisti cattolici c’è anche un gruppo di manifestanti laici a favore della libertà di scelta, tra cui Roberto, di cui Maria si innamora. A dimostrazione che l’amore può superare certe barriere etiche.
«Sì, lo slancio che nasce tra di loro prescinde da posizioni etiche e consente a Maria di comprendere, risvegliarsi e guardare alla sua storia con sguardo nuovo, libero».
Le tre storie raccontate si alternano ma non si incrociano. Eppure sembra ci sia un fil rouge che le lega.
«È così. Mi è sembrato che ogni personaggio parlasse a tutti gli altri, oltre che allo spettatore. E, tornando alla domanda sul titolo, è come se ciascuno di loro si risvegliasse dopo un lungo torpore. Lo sguardo di Marco (Bellocchio, ndr) è libero, vivo. Lavorare con lui è più che prendere parte alla realizzazione di un film. È fare un percorso personale nel film, crescere nei personaggi, vivere il conflitto che li anima e uscire da quei mesi di lavoro più forti, con una nuova pelle. Dopo aver visto il film ho continuato a pensarlo per giorni. Mi è parso che nel raccontare l’eterno confitto tra vita e morte, il film, alla fine, mi lasciasse una sensazione di leggerezza, che fosse come un respiro appena preso, qualcosa del genere». […]
(Foto: Francesca Fago)
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