Ci sono vari modi di misurare la reazione della stampa ad una proiezione, e uno di questi è l’affluenza al bar, per un caffè, dopo i titoli di coda: più il film è stato faticoso, e più la fila si allunga. Oggi, alla fine della proiezione di Tinker. Taylor. Soldier. Spy. di Thomas Alfredson (Lasciami entrare), in concorso a Venezia 68, il bar era letteralmente assediato.
La traduzione del titolo orginale (in italiano sarà semplicemente La talpa), spiega bene la natura del film: in piena Guerra Fredda, a Londra, i servizi segreti britannici si ritrovano con una talpa (cioè un agente infiltrato dai sovietici) ai massimi livelli dell’organizzazione, ma non sanno chi sia. Stagnaio/Tinker (Toby Jones), Sarto/Taylor (Colin Firth) e Soldato/Soldier (Ciaran Hinds) sono i nomi in codice con cui sono indicati i sospetti.
A capo dell’indagine interna, naturalmente segreta, viene messo un ex-agente in pensione, George Smiley, (Gary Oldman), che si fa affiancare da un giovane talento dell’agenzia, al di sopra di ogni sospetto (Benedict Cumberbatch, lo Sherlock Holmes contemporaneo dell’omonimo serial inglese).
Il film procede a singhiozzo: si apre con un agguato nel centro di Budapest (la prova che la talpa è operativa), e racconta poi l’indagine interna attraverso gli interrogatori condotti da Smiley a cani sciolti (il principale interpretato da Tom Hardy, nella foto), agenti “dimessi” (cioè mandati più o meno forzatamente in pensione) e altre pedine inconsapevoli di un quadro politicamente gigantesco.
Per raccontare questa storia, tratta da un celebre – e non troppo breve – romanzo di John Le Carré, Alfredson sceglie di mettere in scena l’Europa dei blocchi e delle spie come si potrebbe fare con l’Inghilterra vittoriana, tutta trini, copriletto di velluto, e candelabri d’argento: un luogo della letteratura, piuttosto che della realtà. Ambienti polverosi, uffici male illuminati, piazze deserte, interrogatori condotti con sanguinaria efficienza mentre una segretaria legge il giornale, e tutti – buoni e cattivi – che si spostano a fatica, insabbiati in un immaginario e in un mondo che al passare delle generazioni e delle ideologie si avvicina al confine dell’invisibilità.
Tantissime le sottotrame, per lo più gestite in flashback, e comunque con impaccio (tanti, tanti buchi), per l’eccessiva mole del racconto d’origine. Ma in fondo poco importa: si arriva alla fine ancora domandandosi chi siano, fra tante facce, Allenine, Prideaux, Esterhase e Bland, e senza la possibilità di tornare cinquanta pagine indietro a controllare nomi e personaggi come capiterebbe con il libro. Quello che resta in tasca sono invece le atmosfere laconiche e dimesse e le grandi prove d’attore (Oldman, tra tanti fantasmi, è il più consapevole della propria trasparenza). Con in più una manciata di colpi al cuore: ancora più violenti e brutali perché isolati in una messa in scena così controllata.
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