Venezia 68: Olmi: «La Chiesa è la casa»
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Venezia 68: Olmi: «La Chiesa è la casa»

L’immigrazione clandestina al confronto con la carità cristiana nel film del Maestro del cinema italiano, Il villaggio di cartone, presentato oggi fuori concorso

Venezia 68: Olmi: «La Chiesa è la casa»

L’immigrazione clandestina al confronto con la carità cristiana nel film del Maestro del cinema italiano, Il villaggio di cartone, presentato oggi fuori concorso

È un Olmi dalle intenzioni come sempre profondamente ecumeniche quello che emerge dal film presentato oggi fuori concorso alla Mostra. Il titolo Il villaggio di cartone si riferisce al gruppetto di tende che una ventina di clandestini improvvisa all’interno di una chiesa dismessa. Ad accoglierli è il prete “congedato” della parrocchia, che sta vivendo una profonda crisi personale da quando non può più assolvere le sue funzioni. L’arrivo dei clandestini lo risolleva dall’apatia, ma nello stesso tempo gli solleva nuovi e continui dubbi. Intanto, nel piccolo villaggio emergono le varie personalità degli stranieri accolti: c’è la giovanissima vedova silenziosa, il giovane idealista, la prostituta elegante e generosa, l’aspirante kamikaze, l’ingegnere illuminato e via dicendo. Le intenzioni del film, che ha visto anche la consulenza di Claudio Magris e Monsignor Ravasi, sono nobili e sincere, ma il film risulta oppresso dalle intenzioni quasi profetiche del regista, dall’abuso di sentenze e dall’eccesso di simbolismo della rappresentazione. Anche i personaggi finiscono per appiattirsi, perché funzionali alla tesi di fondo, divenendo essi stessi simboli.

Olmi ha conservato il tono del film anche durante la conferenza stampa, in cui ha sottolineato con fervore quanto per lui sia centrale il tema della carità cristiana. Ecco cosa ha detto ai giornalisti.

Ventitré anni dopo La leggenda del santo bevitore è tornato a lavorare con Rutger Hauer. Com’è proseguita la vostra relazione umana e professionale da allora?
Ermanno Olmi: Umanamente non si è mai interrotta. Rutger è una persona così carina che quando ero in ospedale ad Asiago ha fatto di tutto per venirmi a trovare anche solo per dieci minuti, ma non si è reso conto che c’erano ottocento chilometri a separarci. Del resto non ha il senso dei chilometri, perché viene da mondi lontani…
Rutger Hauer: È vero, ho fatto di tutto per venire a trovarlo, ma in effetti la distanza era tanta. Sono stato felice dopo tanti anni di tornare a lavorare con Ermanno. È un tema importante  e mi sento onorato di essere stato scelto.

Nel suo film c’è una chiesa trasformata in rifugio per gli immigrati, in cui gli oggetti della chiesa vengono utilizzati come legna da ardere per scaldarsi o come strutture per creare una sorta di capanne. Che cosa voleva suggerire con questa immagine?
EO: Chiaramente quelle scene sono finalizzate a segnalare che più ci liberiamo degli orpelli, più entriamo in contatto autentico con le persone, altrimenti siamo solo maschere di cartone.
 La chiesa è la casa, se non apriamo la casa agli altri anche la nostra casa interiore non si apre agli altri uomini. E ci tengo a dire che gli orpelli dei conformismi culturali sono più pericolosi e nocivi di tutti gli altri.

Con questo film voleva sottolineare che la Chiesa non ha questo tipo di accoglienza?
EO: Quello che vorrei fare è suggerire ai cattolici, e io sono tra questi, di ricordarsi di essere più volte cristiani che cattolici.

Nel gruppo dei clandestini che si rifugia nella chiesa c’è la presenza inquietante di un ragazzo che finisce per diventare un kamikaze. Che significato assume questa figura nel film?
EO: Innanzitutto bisogna ricordarsi che il film è un apologo non realistico. Ogni personaggio è un simbolo. Chi è questo ragazzo che decide di non accettare la relazione col diverso? Commettere un atto violento è un modo per non dialogare con gli altri. Da parte mia era anche un modo per dire che tra gli immigrati non ci sono solo i santi. Anche tra loro c’è chi mette le bombe…

Come mai il suo prete ha così tanti dubbi riguardo alla fede?
EO: La vera fede è quando il peso dei nostri dubbi è superiore alle nostre convinzioni. Non devono essere gli altri a pensare per noi, dobbiamo pensare in proprio e non affidarci alle istituzioni.

In tanti anni in cui riflette su queste questioni i dubbi le si sono sciolti?
EO: Io non ho mai smesso di interrogare Dio. Nei momenti più difficili ognuno di noi è portato a chiedere: «Dio, dove sei?». Sa perché non risponde? Perché dobbiamo rispondere noi.

A quale chiesa si riferisce, a quella con la C maiuscola o minuscola?
EO: Mi riferisco alla comunità umana. Per me non solo siamo tutti fratelli, ma anche della medesima origine. Molti problemi del mondo si risolverebbero se lo tenessimo sempre presente. Continuerò a ripetere queste cose. È la mia forza… Sarà piccola, ma è la mia forza…

Nella sua chiesa sconsacrata non c’è il Cristo dei sacramenti. Non c’è il rischio di ridurre il cristianesimo alla semplice accoglienza?
EO: Cosa ci può essere di più importante dell’accoglienza? La sacralità dei simboli? Il simbolo deve farsi carne per poter essere efficace. Di fronte a un Cristo di un cartone come quello del film tutti si inginocchiano, ma inginocchiamoci piuttosto di fronte a coloro che soffrono. I ragazzi persi nella droga pagano per noi, come Cristo ha lavato per noi le nostre colpe. È troppo comodo inginocchiarsi di fronte a questo simulacro.

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