7 agosto 1991. «Il porto di Durazzo è aperto». La notizia corre lungo le spiagge, tra i vicoli, nelle case. Fino a Tirana. Migliaia di persone si precipitano in poco tempo sulle banchine, senza sapere perché. Presentimenti, sogni, curiosità si impossessano delle loro menti.
Un mercantile, la nave Vlora, è appena rientrato da Cuba con un carico di zucchero, che non verrà mai portato a terra.
È “La nave dolce”. È la nave della speranza per oltre 20.000 albanesi. Si lanciano dalle gru, si tuffano in mare e si arrampicano lungo le cime di ormeggio. Uomini, ragazzi, donne incinte, bambini. Sono ovunque, da poppa a prua, nella stiva, nelle cabine, aggrappati agli alberi. Hanno preso possesso della nave. Senza bagagli, senza aver avvisato parenti o amici, senza sapere se e quando sarebbero partiti. Senza meta.
Inizia così il docu-film di Daniele Vicari, presentato fuori concorso alla 69esima Mostra di Venezia. Dopo Diaz, il regista continua la sua indagine tra le ombre della recente cronaca italiana. Per aiutarci a (ri)costruire una memoria storica. Puntando ancora una volta il dito contro le istituzioni e l’incapacità di gestire civilmente eventi extra-ordinari. Per disorganizzazione, paura, mancanza di preparazione, di leggi adeguate e di mezzi, ma anche di buon senso e pietà.
Nel mirino, questa volta, finisce il più imponente sbarco di immigrati albanesi della storia, giunti la mattina dell’8 agosto 1991 al porto di Bari. Sviscerato attraverso testimonianze e immagini di repertorio. A bordo del mercantile Vlora migliaia di persone attratte dal miraggio di un futuro e un Paese migliore, ma anche alcune bande armate di criminali. Proprio questi intimarono al comandante di attraccare a Brindisi. Anche se l’uomo dovette ripiegare sul capoluogo pugliese su ordine delle autorità italiane.
Il resto è storia. I 20mila albanesi vennero scortati, ammassati e rinchiusi nello stadio cittadino, per volere del Governo e contro quello dell’amministrazione locale, che aveva insistito per far allestire una tendopoli al porto e prestare lì i primi soccorsi. In attesa di un graduale rimpatrio, in alcuni casi spontaneo, nello stadio si scatenò l’inferno. Le bande criminali presero possesso della zona e si appropriarono dei rifornimenti di viveri, affamando i connazionali: «La solidarietà che avevo trovato sulla nave era scomparsa. Era iniziata una guerra, tra noi stessi» come ricorda una testimone.
Ma non tutti conoscono o ricordano questa agghiacciante storia. E La nave dolce è un film prezioso perché permette di rivivere passo dopo passo quei giorni di grande speranza, paura, caos, stenti e violenza attraverso le memorie dei protagonisti. Prima di tutto di chi su quella nave ci salì, come Kledi Kadiu, che successivamente sarebbe divenuto un ballerino famoso grazie a Maria De Filippi: «Avevamo così tanta sete su quella nave. Ripensandoci, la sento anche ora»; o Eva Karafili, all’epoca fresca di laurea in economia, che arriva sulla Vlora con il marito e lì incontra anche suo fratello, e che ora ha trovato lavoro in Puglia; Robert Budina, nel ’91 studente di Belle Arti, oggi regista in patria: «Quando arrivammo, la gioia era incontenibile. Urlavamo: “Italia, Italia!”». I loro ricordi si intrecciano con quelli di chi invece quella nave la vide arrivare a Bari, tra sgomento, senso di inadeguatezza e impotenza. Come l’ispettore di polizia Nicola Montano, buttato giù dal letto in piena notte per attendere la Vlora: «Intorno alle 10 del mattino, la nave di cui tutti parlavano si materializza. Rimasi allibito… Facevano il segno della vittoria con le dita. Pensavo: “Cosa credono di aver vinto? Forse il viaggio di ritorno gratis”». Una premonizione drammaticamente azzeccata.
Ci vengono presentati tutti come personaggi senza nome, come eroi di un film di fiction, che conosciamo a poco a poco attraverso le loro parole e la memoria delle loro azioni. Il linguaggio classico del documentario, viene dunque contaminato in favore della presa emotiva sullo spettatore, ma a scapito della chiarezza della ricostruzione. Il messaggio, d’altra parte, passa forte e chiaro.
Si esce dalla sala colmi di rabbia, digerendo a fatica la lezione. Come Vicari avrebbe voluto. Con le spalle cariche di colpe nostre o dei nostri padri. Perché indignarsi ora è facile.
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