Cinema/teatro/jazz in finto piano sequenza digitale, con due stacchi in tutto (forse tre). Cinema virtuosistico e sconclusionato, di regia/scrittura/recitazione tirate al limite, che bacia in fronte i suoi attori riempiendoli di monologhi, inquadrandoli a un dito dal naso, facendoli orridi e bellissimi, obbligandoli pistola alla tempia alla prestazione da nomination. Chiudendoli nei corridoi di un teatro di Broadway a scannarsi dialogo dopo dialogo, come in un film di Woody Allen/David Mamet, ma con un’attitudine al surrealismo e un’intimità con i personaggi che si fanno strada attraverso il meta-sarcasmo più di quanta ne facciano mai nelle opere dei due.
La storia. Riggan Thomson (Michael Keaton, disumano, Oscar al 75% buono) è un divo in disuso, supereroe alato negli anni ’90, fino al terzo episodio di un franchise di culto (Birdman), ora in cerca di una seconda opportunità come autore e regista teatrale. Prende un racconto breve di Raymond Carver – Di cosa parliamo di quando parliamo d’amore, titolo anche della raccolta che lo contiene – e lo trasforma in uno script per il palco, poi lo mette in scena con l’aiuto di tre colleghi variamente isterici. Tra loro l’ingestibile Mike (Edward Norton), mostro di bravura e fanatico dell’immedesimazione in scena (vero alcol, vere erezioni), frode ambulante nella vita, che ingaggia con Thomson un duello di personalità buffo ma sfiancante (per loro, per noi spettatori è uno spettacolo). Intanto tra quinte e camerini si aggira pure la figlia di Riggan (Emma Stone), indolente reduce dal rehab, e la moglie amatissima perduta per sempre.
Ridotto all’osso, è una panoramica sulla depressione di un uomo che cerca un significato alla sua esistenza perdendosi in un loop di ambizioni, desideri ed epifanie tutte in opposizione fra loro. E quindi il film, che quell’uomo lo segue e lo riflette, è altrettando caotico ricco dispersivo spaventoso, è l’espressione allucinata, impossibile a sbloccarsi, di un conflitto. Teorizza d’altra parte che questo sia il significato dell’arte intesa come mettersi in scena – cioè il mestiere dell’attore, la battaglia che non può vincere. Lo teorizza in particolare in una delle scene migliori, quando Thomson rivendica la natura artistica del suo dolore di fronte alla critica del Times che lo disprezza. Ricordando, e ce n’è sempre bisogno, che la critica non può essere ridotta a un elenco di etichette/opinioni/numeri. Che al di là del palco/schermo c’è gente che spesso si gioca tutto, anche nella peggiore delle stronzate.
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