Al Pacino è sbarcato al Lido, addirittura con due film. In The Humbling, di Barry Levinson, tratto dal romanzo di Philip Roth, è un’attore in crisi d’ispirazione che ritrova la voglia di vivere grazie alla relazione scombinata altalenante elettrica con la figlia di un collega (Greta Gerwig). In Manglehorn di David Gordon Green la crisi è sentimentale, e Pacino interpreta un uomo solo e scorbutico, un fabbro che vive nel rimpianto di una vecchia storia d’amore, incapace di tenere in piedi una relazione decente, che si tratti del figlio broker o di una donna conosciuta in banca che lo corteggia con entusiasmo (Holly Hunter).
Tra i due lavori ci sono evidenti differenze produttive. The Humbling è un film a bassissimo costo (è stato girato a casa di Levinson…) e alta ispirazione, derivando da uno degli ultimi libri di uno dei più grandi romanzieri americani viventi. Manglehorn è un’opera produttivamente più tradizionale, con una messa in scena più ricca, scritta e diretta da un giovane autore prolifico e discontinuo come David Gordon Green (che gira cose che vanno dalla farsa pop Strafumati, all’indie minimalista Joe).
Dei due, il primo è stato presentato Fuori Concorso, mentre il secondo è in Concorso, ma i ruoli avrebbero potuto essere invertiti, con poca differenza. Pacino sembra infatti ormai prescindere dal contesto, inteso come opera e come Festival.
La sensazione che si ha osservando i film di questa fase della sua carriera, a 74 anni compiuti e a valle di un numero infinito di capolavori e di stupidaggini, è che il cinema ormai gli stia dietro di un passo. Gli attori che recitano con lui hanno l’aria di aspettare il proprio turno, i suoi monologhi sono sempre più numerosi e sempre più lunghi, le battute sempre più cariche o trascurate, svuotate o riempite di senso, a turno. Sembra aver pronunciato, sillabato, sussurrato, studiato talmente tanto (Pacino è noto per essere un fanatico dei copioni, che spolpa fino all’osso, dove per copioni si intendono anche i grandi testi teatrali: leggenda vuole che conosca tutto Shakespeare a memoria, e lo reciti a campione nei camerini durante trucco e parrucco), che le parole stesse gli scivolano nell’inconfondibile voce bassa e roca, astratte e ipnotiche come increspature sul pelo del mare. Osservarlo è un’allucinazione, perfino ora che è rimasto un ometto tinto fragile ingobbito (ma lo è davvero? o lo sono questi due personaggi? o lo è il personaggio che interpreta per se stesso e per noi in questo momento della sua carriera?).
Il giudizio sui due film è quindi poco più di un’ipotesi. Del primo affascina naturalmente il confronto tra l’uomo, il suo mestiere e uno scrittore come Roth, che con Pacino ha più di un’affinità (prima di tutto la resistenza alla vecchiaia guadagnata attraverso la qualità iconica di un gesto, lì il recitare, qui lo scrivere). Del secondo la progressione incerta, la struttura fragile, con momenti onirici (l’incidente), didascalici (l’operazione al gatto), romantici (la cena) o squisitamente letterari (i racconti sul passato di Manglehorn) mischiati con poco criterio, un disordine su cui Pacino e la stessa Hunter galleggiano con esiti straordinari, regalando alcune delle sequenze più belle del Festival.
Questo ormai è il cinema di Pacino: un repertorio in evoluzione, potenzialmente infito, espressione di una tecnica talmente lavorata da essere al contempo sterile e sublime.
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