Sulla Terra, in dodici luoghi sparsi a caso per il globo senza alcuna apparente connessione tra loro, compaiono degli enormi e misteriosi “oggetti”, così vengono inizialmente etichettati questi ovuli dalla forma allungata, alti almeno 450 metri, leggermente concavi, di colore scuro. Elementi non meglio identificati che presto si rivelano delle astronavi aliene. Dall’esterno, nulla di particolarmente tecnologico; piuttosto, a vederli sospesi nel paesaggio, sembrano un quadro di Magritte.
È una fantascienza filosofica quella messa in scena dall’acclamato Denis Villeneuve (il regista canadese di Sicario e Prisoner) in Arrival, e non a caso gli extra-terresti vengono “sfidati” non da soldati o astronauti, quanto da una linguista e un matematico che usano come “armi” le parole e i numeri. Presentato in concorso al Festival di Venezia (qui la nostra recensione), il film vede nei panni dei due protagonisti Amy Adams (Lois Lane nei cinecomic su Superman) e Jeremy “Occhio di Falco” Renner: li abbiamo incontrati entrambi di persona, dopo la proiezione per la stampa, per parlare del film, uno dei più affascinanti visti sinora al Lido.
Una traduttrice e un matematico. Ma soprattutto un uomo e una donna. Arrival sembra suggerire che uomini e le donne abbiano capacità di reazione e attitudini differenti di fronte a situazioni tragiche. Siete d’accordo?
Jeremy Renner: «Assolutamente sì. Ion sono cresciuto con tutte donne e nella mia limitatissima esperienza posso dire che è vero: c’è un modo proprio diverso di affrontare il dolore, sia fisico che psicologico. Le donne hanno capacità intelligenza emotiva superiore, reagiscono meglio alle perdite. Lo vedo sin dall’infanzia».
Amy Adams: «Vero. Ne ho la prova con mia figlia di 4 anni: basta vedere come riesce a gestisce un raffreddore molto meglio rispetto al padre (ride, ndr). Già da da quello capisci la differenza».
Questo è un film di fantascienza che ha anche una valenza politica. Di fronte all’arrivo silenzioso e misterioso degli alieni, i vari capi di Governo non riescono ad attuare una strategia comune ed emerge una mancanza di comunicazione tra i politici e gli Stati nazionali, un problema molto attuale.
A.A.: «Purtroppo non credo che sia un problema solo di oggi, era già accaduto. Dal passato non abbiamo imparato proprio nulla, e questo è frustrante».
J.R.: «La mia prospettiva su questo argomento è un po’ diversa. A dividere e unire gli Stati, che sono composti da uomini, è sempre la stessa cosa: le emozioni. La paura, ad esempio, porta a metterci l’uno contro l’altro, a separarci, ma è anche quella che ci spinge a far fronte comune, a unirci».
Pensate che il linguaggio, la ricerca di una comunicazione col nemico, come accade nel film, sia lo strumento giusto per risolvere la guerra, qualsiasi tipo di guerra essa sia?
J.R.: «È uno dei modi, sicuramente».
Qual è il vostro film di fantascienza preferito?
J.R.: «Sinceramente non credo nel concetto di “cose favorite”, mi spiace ma non so rispondere».
A.A.: «Sono d’accordo, non si può scegliere un preferito. Posso però dire che a me piacciono molto le opere sci-fi: la mia passione per il genere si è sviluppata da ragazzina e sin da subito ho amato particolarmente il fatto che i film di fantascienza – ed è quello che più mi piace – sono un qualcosa che hanno che fare con le possibilità, con le opportunità che esistono».
Com’è stato lavorare con Denis Villeneuve? Sul set, è un regista che lascia spazio all’improvvisazione o uno che ha una visione molto precisa e molto rigoroso nelle sue indicazioni?
J.R: «Un po’ entrambe le cose. Sul set è molto concentrato, ha molto chiaro in testa quello che vuole ottenere, l’inquadratura che ottenere. Il suo scopo fondamentale, comunque, è catturare un contenuto emotivo. Lo definirei un incrocio tra Kubrick e Spielberg: ha la pazienza e il rigore del primo, la sensibilità e la visionarietà del secondo. Se questi due registi avessero avuto un figlio, si chiamerebbe Denis Villeneuve. Secondo me è veramente un genio, uno con le idee chiare e concentrato sull’aspetto emotivo e ha spinto noi e tutti gli altri a dare il massimo da questo punto di vista».
All’inizio del film si parla di memoria e si dice: «La memoria è una cosa strana. Siamo costretti dal tempo e dal suo ordine». Qual è il vostro rapporto con la memoria e il tempo?
J.R.: «È una bella domanda, ma troppo grande. Non sono in grado di rispondere ora, su due piedi. Quello che posso dire è che la memoria è la cosa che forgia i nostri comportamenti perché noi abbiamo continuamente relazioni e rapporti coi ricordi: in termini scientifici, questo processo si chiama “neuro mappatura” e indica quei casi in cui una canzone, un odore, un colore suscita immediati ricordi a qualcosa che abbiamo vissuto, positivo o negativo, nel passato, per esempio un profumo rimanda alla memoria di un ex-fidanzato. La memoria serve a imparare dal passato, da esperienze già vissute, per poi fare scelte diverse. E possibilmente cambiare. Ovviamente questo varia da persona a persona: alcune sono più “pecora” e continuano a seguire il gregge, altri sono più “pastori” e decidono loro che strada intraprendere».
Nel film assistiamo, all’inizio, a diversi flashback e flashforward che pensiamo essere dei classici strumenti del racconto, salvo poi capire che in realtà si tratta di qualcosa di diverso… Un’esperienza che possiamo vivere anche noi nella vita di tutti i giorni e che chiamiamo déjà vu. Potete raccontarci qualcuno dei vostri déjà vu?
A.A: «Amo i déjà vu. Una persona che conosco, qualcuno di molto spirituale, una volta mi ha raccontato che i déjà vu sono come un segnale, un modo per verificare se si sta seguendo un percorso di vita che è quello che ci è stato assegnato: il déjà è la prova che sei sul sentiero giusto della vita a te predestinata, che sei nei binari. Non sono sicura di crederci al 100%, ma è un discorso molto affascinante».
Arrival uscirà in Italia il prossimo 24 novembre.
Foto HP: Getty Images
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