Stamattina sono terminate le proiezioni per la stampa dei film in concorso all’edizione numero 73 della Mostra del Cinema di Venezia. Il bilancio è positivo, a partire dalla scelta di aver inserito ben sette film americani in concorso, film che si sono rivelati quasi tutti (escludiamo The Light Between the Ocean) meritevoli di stare lì, a testimonianza di come all’ombra dei blockbuster, sempre più omologati, si stiano vivendo anni di grande ricchezza autoriale.
Molto meno buono il bilancio dei film italiani: i migliori mi sono sembrati Indivisibili (Giornate degli Autori) e Liberami (Orizzonti), ma dopo la completa assenza dal concorso di Cannes, questa edizione del festival veneziano non è servita di certo a tirarci su il morale sullo stato del nostro cinema d’autore.
Ho voluto confrontare le mie opinioni con quelle di due critici italiani di cui apprezzo il lavoro, Pietro Bianchi e Gabriele Niola. Con loro ho provato anche a riflettere sul senso attuale di un festival cinematografico e delle sue proposte più “estreme”, concentrandomi sul film filippino di Lav Diaz, lungo quattro ore, in bianco e nero, e composto quasi unicamente di inquadrature fisse della durata di alcuni minuti.
Naturalmente ho chiesto a entrambi i film preferiti del festival, e quelli che invece non hanno amato.
Nemmeno io mi sottraggo a questo gioco: tra i più belli cito La La Land, Nocturnal Animals e Jackie; tra i meno riusciti Questi giorni, Brimstone e The Bad Batch.
Inoltre è importante ricordare che nessun in critico è in grado di vedere tutti i film in programma, e che dunque ogni prospettiva è parziale.
La conversazione è avvenuta a tavola, mentre pranzavamo, in un contesto molto informale, diciamo tra un boccone e l’altro. Quando si è trattato di nominare un film, a volte si è citato il titolo, altre volte l’autore: ho volutamente mantenuto le risposte così come sono state date, perché il fatto che istintivamente si scelga l’uno o l’altro, mi pare indicativo.
È stata una buona edizione del Festival?
GN – Per me sì.
PB – Abbastanza.
Cosa intendete per “Una buona edizione”? Cosa rende un’edizione di valore?
PB –Bella domanda. Trovare l’identità e il filo rosso che dia senso alle scelte di un festival è difficile. Spesso ho l’impressione che la varietà nasca dalla necessità di mettere cose molto diverse tra loro, a volte opposte (e quindi ci si trova con”Piuma” e Lav Diaz nella stessa sezione). Un festival senz’altro dovrebbe aprire nuovi spazi per il cinema: scoprire nuovi autori o anche nuovi aspetti del linguaggio cinematografico. Venezia negli ultimi anni era parsa un po’ in difficoltà, anche rispetto a Locarno, ma mi pare che stavolta sia andata meglio.
GN – Sono d’accordo sul fatto che guardare al futuro sia una caratteristica fondamentale di un festival e, per esempio, Cannes non lo fa per niente, al massimo lo fa la Quinzaine. In questo senso, negli ultimi due anni Venezia è stata meglio di Cannes. L’altra caratteristica di un buon festival è la fotografia del presente, la capacità di dire cosa sta succedendo in questo momento, diciamo i trend. E qui mi pare Barbera abbia fatto un gran lavoro nel fotografare quello che è il nuovo cinema d’autore, al di là cioè dell’autorialità canonica dei Lav Diaz e Wim Wenders. Questa autorialità è rappresentata ad esempio da Villeneuve, Chazelle, Amirpour, autori che operano in un contesto più o meno hollywoodiano.
Tre film del concorso che vi sono piaciuti?
GN – El ciudadano ilustre, Arrival, La La Land.
PB – Il film di Lav Diaz, Jackie e il film di Brizé.
E al di fuori del concorso?
GN – Il film di Mel Gibson.
PB – Mel Gibson, Monte di Amir Naderi e, sarò impopolare, ma anche il film di Jacquot.
GN – Io aggiungo The Young Pope e Safari.
Tre film che invece non vi sono piaciuti?
GN – Quello di Piccioni, Spira Mirabilis e, restando al concorso, Une Vie di Brizé, non concordo a riguardo con Pietro.
PB – La grossa delusione è stata Ana Lily Amirpour. Brimstone è inspiegabile che fosse in concorso. E mi ha molto deluso Arrival, che secondo me è un passo indietro nella sua filmografia.
Più che sui vostri film preferiti, mi piacerebbe mi diceste qualcosa di quelli che non vi sono piaciuti.
GN – Allora, il cinema di Piccioni rappresenta quello che ci dovremmo lasciare definitivamente alle spalle in Italia. Velleitario, fieramente non popolare eppure che tenta anche un po’ di andare incontro ai gusti del pubblico, e mal fatto anche da un punto di vista tecnico. Spira Mirabilis invece è un fallimento. Cioè tecnicamente interessante ma che fallisce rispetto alle sue ambizioni: è un documentario non narrativo che non riesce a fare della somma delle sue immagini qualcosa di superiore. Une vie prova infine a raccontare una vita attraverso i suoi momenti meno “interessanti”, un po’ come faceva Boyhood, per raggiungerne l’essenza, ma senza riuscirci.
PB – Io non penso che né Arrival né The Bad Batch non dovessero stare in concorso, anzi, vanno benissimo. Quello della Amirpour – che ha un modo tipico di narrare della “generazione Millenial”, molto poco verticale, dispersivo, pieno di tante cose diverse che stano poco insieme, un po’ come un videoclip – era interessante sulla carta ma le è riuscito male. Spring Breakers andava nella stessa direzione ma con esiti molto migliori. Di Arrival mi ha deluso il flirtare con certe derive new age che stanno diventando molto popolari nella fantascienza. Brimstone invece è semplicemente un film senza capo né coda.
Quando noi critici diciamo che un film “non è da concorso”, cosa intendiamo?
PB – Che non è significativo. Non sono sintomatici del periodo che stiamo vivendo, né sono formalmente interessanti, non aprono a un’idea di cinema innovativa.
GN – Tutto vero, in teoria, ma aggiungiamoci che un festival è anche la celebrazione dei grandi autori contemporanei.
Come esce il cinema italiano da questa edizione del Festival?
GN – Intanto c’è un trend. Abbiamo visto quattro film con protagonisti adolescenti – L’estate addosso, Piuma, Questi giorni e Indivisibili -, due dei quali con tematiche omosessuali, e se ci aggiungi anche Un bacio, uscito qualche mese fa, mi pare che sia un segnale che si vuole andare a prendere il pubblico giovane come ha fatto Lo chiamavano Jeeg Robot. Forse sono tentativi maldestri, ma la direzione è quella. Per il resto il cinema italiano ne esce malissimo, ma d’altra parte Barbera l’aveva detto di aver visto soltanto cose ripetitive. Detto questo, non mi dispererei, mi sembra più un problema di questa edizione del festival che del cinema italiano in generale. Tra l’altro tutti i nostri autori più importanti sono usciti per coincidenza lo scorso anno.
PB – Io dico che ci sono valutazioni contingenti ma anche una tendenza generale. Le contingenze sono che Bellocchio ha anticipato la prima mondiale a Cannes e Amelio non aveva il film pronto. Che ci sia poi uno stacco tra le produzioni di medio livello e gli autori “canonizzati” probabilmente è vero, però ad esempio sono contento che ci fosse Spira Mirabilis in concorso. Mi pare in generale che a livello di documentario ci siano segnali buoni.
GN – Tra l’altro va aggiunto che nel 2016 sono usciti Lo chiamavano Jeeg Robot, Veloce come il vento e Perfetti sconosciuti, che è il miglior film di Genovese. Paradossalmente il livello commerciale si è alzato mentre si è abbassato quello del cinema d’autore.
Abbiamo già citato The Woman Who Left, il film di Lav Diaz. Si tratta di un autore molto amato dai critici che fa film che arrivano a durare anche dodici ore, anche se questo ne dura solo quattro. Film in bianco e nero e composti da lunghe inquadrature fisse. Quello che vi chiedo è se sia possibile instaurare un discorso con il pubblico su opere così “estreme”.
PB – A me piace molto Lav Diaz, anche se mi rendo conto che sia molto difficile. Intanto bisogna chiedersi se il cinema debba per forza assecondare le modalità di visione che in un certo periodo storico il pubblico ha. Un filosofo diceva dei film di Jean-Marie Straub che faceva film per un popolo che non esisteva ancora. Lav Diaz forza le soglie di tolleranza di tutti, anche le mie, che amo molto i suoi lavori. Anche se è un cinema che non è apprezzato dal grande pubblico, non significa che non abbia elementi di interesse.
Ok, ma è possibile instaurare un dialogo col pubblico medio?
GN – Intanto io credo che molti, di fronte alla trama di The Woman Who Left, tenderebbero a essere interessati: una donna esce di prigione perché proclamata innocente, torna nel paesino in cui è avvenuto il crimine di cui era accusata, vive una doppia vita notturna e diurna, e medita di uccidere chi l’ha incastrata. Allora la domanda diventa: perché quattro ore in bianco e nero, con un ritmo lentissimo? È necessario? Il mio stupore è che, dopo averlo visto, la risposta che darei è: sì. Vedere le quattro ore è una grande impresa che vale la pena portare a termine. E il pubblico di un film così esiste, anche se è piccolo. Mentre il grande pubblico non penso abbia voglia né tempo di dedicarsi a Lav Diaz, né che in fondo abbia qualcosa da “prendere” dai suoi film… È pensato per i grandi appassionati che ad esempio si appassionano a come il sound design notturno crea ambienti straordinari, giusto per dire una cosa. Il pensiero di Lav Diaz è: io troverò il punto più incredibile da cui riprendere una certa scena, e le cose che accadranno all’interno dell’inquadratura che ho scelto ti suggestioneranno, indipendentemente da ciò che accade, che due persone ad esempio cantino oppure una faccia un balletto e un’altra si senta male, o perfino che due parlino senza che quel che dicono abbia un peso per la trama. I “quadri” di The Woman Who Left a cui ho assistito mi hanno lasciato addosso una sensazione fortissima di queste notti filippine, come se ne avessi fatto parte.
PB – Vedere un quadro statico al cinema per diversi minuti è come guardare una fotografia. Cosa succede se sei obbligato a guardare una fotografia per dieci minuti? Che ovviamente vedi dei dettagli che altrimenti non noteresti. Una cosa del genere la puoi sperimentare solo al cinema, in sala. Inoltre è un tipo di cinema che è stato reso possibile dal digitale, con la pellicola sarebbe impensabile. Aggiungo che io quest’anno ho dormito almeno un paio di minuti a tutti i film. Tranne che a questo.
GN – No, io all’inizio ho un po’ dormito.
Chiudo chiedendovi a chi dareste voi il Leone d’Oro, e a chi invece pensate lo darà la giuria.
GN – Io lo darei a El ciudadano ilustre, ma è più probabile che lo vinca Paradise di Konchalowsky.
PB – Io invece lo darei proprio a Lav Diaz, ma penso vincerà Jackie. E tutto sommato lo meriterebbe.
Pietro Bianchi lavora tra l’università e la critica cinematografica, tra gli Stati Uniti e l’Italia. Collabora con la rivista Cineforum e i siti web “Le parole e le cose” e “Doppiozero”. In futuro lo potrete leggere su BestSerial.it. Ha 37 anni.
Gabriele Niola è un critico di cinema e videogiochi freelance, corrispondente dall’Italia di Screen International. Ha curato la storia di contro-copertina del numero di Best Movie di ottobre, in edicola a fine mese, dedicata a Inferno di Ron Howard. Ha 35 anni.
© RIPRODUZIONE RISERVATA