L’estraneo che penetra all’interno del nucleo famigliare minandone l’equilibrio, la menzogna nel bene, la menzogna nel male, l’educazione sentimentale della giovane fanciulla, l’ambiguità della sessualità e del rapporto amoroso, il dramma nella commedia, la provocazione come strumento politico, il dubbio.
Tutti, ci sono proprio tutti gli elementi alla base della poetica narrativa di François Ozon e vengono serviti allo spettatore con una grazia, un fuoco, una consapevolezza e un controllo, raramente visto nella cinematografia del regista francese.
La scusa per metterli in scena viene da lontano, da una vecchia piece teatrale, pacifista, di Maurice Rostand, scritta subito dopo la Prima Guerra Mondiale e già adattata per il cinema da Lubitsch nel 1931 col il titolo Broken Lullaby (da noi: L’uomo che hai ucciso), che Ozon prende e capovolge nel significato e negli obiettivi.
Se la materia di partenza, infatti, si apriva con la confessione disperata di un francese, Adrian, che ossessionato dall’aver ucciso un soldato tedesco della sua stessa età, decideva di partire per la Germania alla ricerca dei suoi genitori pur di liberarsi del peso del suo orrendo crimine e sperare di ottenerne il perdono, Ozon ritarda la confessione di Adrian mostrandocelo già in lacrime al cospetto della tomba del giovane Frantz e mettendo in scena un inganno che lo presenta come il migliore amico del ragazzo morto.
Nonostante le diffidenze iniziali e il diffuso odio verso i francesi all’alba di una guerra che li aveva visti trucidare migliaia di giovani tedeschi, Adrian viene creduto sia da Anna, la giovane fidanzata di Frantz promessagli in matrimonio, sia dai genitori del giovane che, disperati dalla sua perdita, guardano come una benedizione quei piccoli barlumi di vita del figlio, anche attraverso i semplici racconti dell’estraneo.
Si procede così, alla scoperta di un Frantz evocato e ricostruito attraverso i racconti di Adrian che altro non fa che raccontare sé stesso, conquistando, oltre che l’agognato perdono, un posto importante nei cuori degli anziani coniugi desiderosi di vedersi restituiti l’amato perduto e, soprattutto, in quello della combattuta Anna che ben presto scoprirà la vera identità dell’ex soldato francese.
Gioca, Ozon, con tutti questi elementi, disponendo i pezzi sulla scacchiera e muovendoli in un tracciato che è bianco ed è nero tanto per esigenze narrative, quanto pratiche: «Mi sono accorto presto che non avevo il budget necessario per una ricostruzione precisa come avrei voluto farla…» – ha dichiarato – «…e durante le ricerche delle location con Michel Barthelemy lo scenografo, trovavamo ambientazioni interessanti ma che necessitavano di interventi troppo cari. Un giorno, ho avuto l’idea di mettere in bianco e nero le foto delle nostre ricerche. Per miracolo tutto funzionava alla perfezione e grazie al bianco e nero guadagnavamo paradossalmente in realismo e veridicità, poiché tutti i nostri riferimenti di quell’epoca erano in bianco e nero. È stata una scelta artistica ed economica difficile da far accettare alla produzione, ma alla fine credo che il film ci guadagni tanto.»
Al colore, invece, va il compito di celebrare la vita in tutte le sue forme, tanto le più evidenti e dirette al cospetto della solita natura intesa come bellezza, quanto nella violenza vivida del sangue che sgorga a macchiare lenzuola calpestate da un malessere che, mentre la guerra circostante piegava l’Europa, nasceva prima di tutto nelle teste di chi, più di tutti, viveva il disagio inascoltato di non poter vivere per davvero la vita che sognava.
Graziato dalla fotografia di Pascal Marti che affronta con taglio moderno la più classica delle messe in scena, benedetto da una scrittura misurata che, da una parte, non si risparmia colpi duri mostrando quanto, anche in tempo di pace, la violenza sia insita nei rapporti umani fin dai loro stessi inni di appartenenza (esemplare, da questo punto di vista, l’esecuzione integrale della Marsigliese con le sue parole rabbiose, cariche di odio), dall’altra rimane leggera, caratterizzando con poesia e ironia soprattutto i due personaggi femminili di contorno, l’aristocratica madre di Adrian e la semplice e genuina mamma di Frantz.
Ma è l’interpretazione di tutti i personaggi a convincere, a partire dal Bergmaniano pater familias Hoffmeisteir, cui dà corpo e voce Ernst Stötzner, passando per la giovane Fanny che ha la rassegnata malinconia di Alice De Lencquesaing, fino ai due protagonisti, Pierre Niney e Paula Beer, le cui qualità attoriali svettano su tutto e tutti. Il primo, per la capacità di mettere in scena una impressionante mole di espressioni e stati d’animo, capace di farci credere tanto alle sue verità quanto alle sue menzogne, la seconda, per impersonare a pieno l’ultimo tassello di un puzzle con cui Ozon omaggia la figura femminile, la sua forza, la sua fragilità e il suo continuo rialzarsi nonostante i perenni tentativi del mondo circonstante, di abbatterla.
È alla crescita della giovane Anna che sono dedicate le quasi due ore di Frantz, alla sua scoperta della morte, al suo accettare, inesorabilmente, la vita.
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