NE GLEDAJ MI U PIJAT – QUIT STARING AT MY PLATE
di Hana Jušić
Croazia, Danimarca – 105’
E’ cresciuta a Sebenico, Hana Jucis, in una realtà molto simile a quella che vive Marijana, la protagonista del suo lungometraggio d’esordio, ai confini delle periferie e dei residui industriali dove la famiglia è tanto il fondante nucleo d’appartenenza quanto la gabbia che impedisce la fuga, che necessita di assistenza. Quando il padre di Marijana viene colpito da un ictus, per la giovane infermiera è il momento di rallentare col lavoro e rinunciare alle amicizie e agli svaghi, per assicurargli quelle cure che il resto della sua disfunzionale famiglia non è in grado di garantirgli. Ma più la morsa della malattia preme su quell’uomo, prima distante e violento, adesso immobile e indifeso, più la pressione che Marijana sente su di lei la porta a esplodere, a fuggire e a trovare rifugio tra i corpi e le mani di troppi sconosciuti, ben lieti di approfittarsi delle grazie della giovane ragazza. Senza lasciare spazio ad alcuna retorica e grazie al lavoro sulle luci naturali di Jana Plecas, l’affresco messo in scena da Hana Jusic risulta un credibile, emozionante e commovente, inno alla conquista di quelle libertà individuali che nulla hanno a che fare col fuggire lontano, quanto con lo scegliere, coscientemente, dove voler stare.
HJARTASTEINN – HEARTSTONE
di Guðmundur Arnar Guðmundsson
Danimarca, Islanda – 129’
L’opera prima del trentaquattrenne Guðmundsson è dedicata a quel delicatissimo momento di passaggio tra l’adolescenza e l’età adulta che per Thòr e Christian avviene d’estate, nel minuscolo villaggio di pescatori dove vivono. Tra ragazze da conquistare, bulli da evitare, segreti da ammettere, almeno a sé stessi, i due ragazzi si muovono liberi e puri all’interno di una comunità che non riesce a capirli, né ad afferrarli, perché quello su cui Guðmundsson focalizza il suo racconto sta proprio nascosto tra le fessure, le pieghe, di quella vita che gli adulti non riescono più a riconoscere. E’ la dolente, imperfetta e scatenata adolescenza che si muove nei loro angoli ciechi e che osteggiano, nonostante una volta, ormai dimenticata, appartenesse anche a loro. E noi siamo lì, a vedere questi ragazzi che, come i piccoli e brutti pesci che danno il titolo al film, riescono a sopravvivere, nonostante il loro aspetto, la loro stessa esistenza, indispettisca a tal punto, chi gli si para davanti, da volerli schiacciare senza alcuna pietà.
THE WAR SHOW
di Andreas Dalsgaard & Obaidah Zytoon
Danimarca, Finlandia, Siria – 100′
Vincitore del Venice Days Award, premiato come miglior film
Siria. Marzo 2011. La conduttrice radiofonica Obaidah Zytoon scende in piazza, insieme a un gruppo di amici, per protestare contro il regime di Bashar al-Assad. La loro arma più forte è la telecamera, perché con la telecamera possono raccontare quello che vedono, divulgarlo attraverso i social, renderlo virale, denunciare, gridare, far sapere qual è la realtà che vivono ogni giorno e che viene taciuta dai media di regime. Per questo, le telecamere, sono la principale fonte di accanimento delle forze armate. Per questo loro le custodiscono gelosamente e per questo, grazie alla telecamera di Obaidah Zytoon e del suo gruppo di amici, The War Show è il più sincero, diretto e spietato documentario di guerra che vi capiterà di vedere. Perché non vi mette davanti a un classico reportage o a quel linguaggio giornalistico che travalica i confini e arriva fin da noi, ma racconta, semplicemente e sorprendentemente, quello che vedono i venticinquenni che vivono sulla loro pelle la costante resistenza a una realtà di guerra continua. Mostra la loro amicizia, vera, tra cecchini, macerie, attentati e fughe su piccole e preziose spiagge che il mare bagna libero, lontano dalle urla e dagli spari. Mostra il tentativo di viaggiare verso una Siria libera e il modo agghiacciante in cui, lentamente ma inesorabilmente, tutto sarà perduto, distrutto, cancellato.
THE ROAD TO MANDALAY
di Midi Z
Cina Taipei, Birmania, Francia, Germania – 108′
Per i giovani birmani che vivono nell’assoluta povertà dell’entroterra, il miraggio di una vita migliore si trova subito dopo le montagne, varcati i confini con la Thailandia attraversato il Mekong e superata la città di frontiera Tachileik, fino a raggiungere Bangkok.
E’ quello che fa la giovane Lianqing insieme ad altri cinque clandestini tra cui c’è Guo, un ragazzo gentile che si preoccupa di trovarle un lavoro e di evitare che Lianqing finisca nelle mani dei poliziotti corrotti. Perché tutto quello che vuole la ragazza è una carta d’identità che le permetta di poter scegliere del proprio destino, ma a quanto pare, l’unico modo possibile per ottenerla è pagare un prezzo sempre più alto alle viscide guardie di frontiera.
Quello di Midi Z, sceneggiatore oltre che regista di The Road To Mandalay è un atto di accusa verso un sistema che annulla l’identità, prima della dignità, delle classi sociali più povere che ne fanno parte, cancellando in loro la possibilità e il desiderio, di essere qualcosa di diverso da un numero. Un tenero e sorprendente on the road a cavallo tra due nazioni, evitando accuratamente le strade principali e mettendo al centro dell’obiettivo le arterie secondarie che pullulano di vita e morte, sulla pelle di migliaia di immigrati clandestini.
HOUNDS OF LOVE
Di Ben Young
Australia – 108’
«L’idea di Hounds of Love ha iniziato ad attrarmi dopo la lettura di un libro di cronaca nera che raccontava storie di serial killer donne. Ciò che si evinceva è che nessuna di loro aveva agito per conto proprio ma erano state influenzate da un partner. Il pensiero che una donna potesse commettere degli abusi sessuali e prendere la vita di un’altra, in nome dell’amore, era qualcosa che andava oltre la mia comprensione e che quindi ho voluto esplorare attraverso questo film.» E’ racchiusa tutta in queste parole di Ben Young, la forza della sua interessante opera prima, ambientata negli anni ottanta, stracolma di omaggi alle pellicole dell’epoca (con un particolare occhio di riguardo agli horror) e che vede protagonista la giovane Vicki Maloney (Ashleigh Cummings), rapita da una coppia di psicopatici con l’unico scopo di abusarla in tutti i modi prima di seppellirla come decine di altre ragazze prima di lei. Ma Vicky ha capito che tra i due rapitori ci sono tensioni irrisolte e disequilibri che possono minare la loro unione, e proprio in quelli tenterà disperatamente di infilarsi pur di riuscire a sopravvivere.
Nonostante alcune soluzioni registiche poco a fuoco tra il secondo e il terzo atto del film, grazie a una buona scrittura e alle ottime interpretazioni della coppia di squilibrati (gli eccezionali Stephen Curry e Emma Booth), Young riesce comunque a mantenere alta la tensione per tutta la durata della pellicola e a regalarci più di un brivido.
ROCCO
di Thierry Demaiziere & Alban Teurlai
Francia – 107’
Chissà se quando il reporter di guerra Thierry Demaiziere incontrò per la prima volta il regista di spot e videoclip Alban Teurlai avrebbe mai immaginato che quasi quindici anni dopo i due, insieme, avrebbero realizzato un documentario sul “Mike Tyson della pornografia” Rocco Siffredi. E chissà se lo stesso Rocco Tano, avrebbe mai pensato che centinaia di film porno non sarebbero riusciti a metterlo a nudo come i centosette minuti di Rocco presentato come evento speciale all’interno della sezione dedicata alle Giornate Degli Autori della settantatreesima edizione del Festival del Cinema di Venezia.
Non è una biografia, quella messa in scena dal duo di registi francesi, bensì la fotografia di un preciso momento della vita dell’attore abruzzese, quando, per girare quello che presenta come l’ultimo film porno della sua carriera, riunisce attorno a sé alcuni dei personaggi più importanti del suo percorso artistico: John Stagliano, simbolo del porno americano, il fedele cugino Gabriele, da sempre “l’occhio” dei suoi film e, soprattutto, Kelly Stafford, attrice inglese, ritirata da anni e da tutti ritenuta tanto l’unica degna “spalla” di Rocco, quanto la sua vera e propria nemesi. Ed è proprio Kelly il personaggio che più di tutti, emerge vincitore dal documentario di Demaiziere e Teurlai, perché mentre Rocco è troppo impegnato a mostrarsi lacerato, malinconico, pentito e desideroso del perdono e dell’accettazione di moglie e figli, Kelly giganteggia dall’alto della totale e sfrenata libertà di essere tutto quel che si vuole senza temere il giudizio di nessuno, a partire dal proprio. La vittoria della sessualità consapevole e sfacciata contro un pentimento perbenista che non appare mai sincero fino in fondo.
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