C’è questa enorme paura nei confronti di Lav Diaz, autore noto, nel circuito festivaliero, per essere il filippino che gira film lunghissimi di 4,6,8 ore. Un timore chiaramente giustificato, talmente fuori dalle convenzioni è il cinema del regista, autentico outsider del panorama, emblema della libertà priva di ogni compromesso con le leggi del mercato: raramente le sue opere escono in sala, ma non gliene frega assolutamente nulla, giacché Lav Diaz è l’ultimo dei romantici bohémien, artista errante disposto a tutto pur di conservare la propria integrità.
E anche stavolta, la magia si compie: ti siedi in sala, partono le immagini, ti ritrovi un po’ sperduto, passano i minuti, forse un’ora, e poi tac, prima ancora di rendertene conto, sei finito in simbiosi con lo schermo, catturato da un flusso ipnotico che cancella la percezione della durata, come se il tempo si fosse sciolto. La visione diventa esperienza da vivere con l’anima, e nella semplicità dei quadri fissi e minimali, a scorrere è tutto quello che potremmo mai chiedere dal cinema: vita, morte, amore, odio. In una parola: emozioni.
Meraviglioso come Lav riesca a immergerci in trance nel suo suggestivo bianco e nero; miracoloso come lo schermo smetta – a un certo punto – di dividere la luce dal buio. La sala diventa il mondo e il mondo la sala, e a prendere vita, davanti e con noi, sono questi personaggi carichi di struggente umanità in cerca di una direzione e una traiettoria. Ma la storia è una spirale che si ripete (nonostante il film si ambienti nel 1997, è l’oggi ad essere onnipresente), e la condanna è ritrovarsi a girare in tondo, sempre al punto di partenza, abbracciato per sempre ai nostri fantasmi.
[Infine, ci risvegliamo in poltrona, forse con una lacrima sul viso]
Un Leone d’oro, questo per The Woman Who Left, che arriva come consacrazione definitiva dell’autore dopo l’Orso d’argento a Berlino. Dei riconoscimenti che vanno al di là del singolo recipiente, giacché premiare Lav significa onorare in primis un’idea di emancipazione estetica. Non solo Diaz è un grande cineasta, ma è anche più necessario che mai. Come Godard, come Béla Tarr, come Tsai Ming-liang, come quegli altri maestri che hanno spinto le barriere dello spazio-tempo-immagine oltre i suoi confini, verso un territorio imprendibile sempre e perennemente oltre. Non un cinema per tutti, ma che è tutto.
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