Spericolato. È questo il primo aggettivo che viene da affibbiare ad Ammore e Malavita. E del resto si deve amare il rischio e non si deve avere paura del ridicolo quando si decide di fare un film dove i camorristi si mettono a cantare tra una sparatoria e l’altra.
Spericolati sono dunque Marco e Antonio Manetti, altrimenti detti i Manetti Bros., che nel loro musical presentato in questi giorni al Festival di Venezia (qui la recensione) hanno frullato insieme azione e romanticismo, la Napoli “gomorrizata” e la tradizionale della sceneggiata partenopea. Un film ricchissimo di citazioni (da 007 a Ritorno al futuro), provocatorio e molto divertente dove, giusto per citare un paio di scene, “What a Feeling” di Flashdance viene rivisitato in napoletano o i morti ammazzati si mettono a ballare sculettando e schioccando le dita nei loro abiti insanguinati.
Oggi abbiamo incontrato i Manetti Bros. – da anni registi-emblema del cinema di genere in Italia – all’Hotel Excelsior di Venezia. Sotto, la nostra intervista.
La scintilla iniziale, la primissima idea di Ammore e Malavita è stata la proposta del produttore Carlo Macchitella di fare un sequel di Passione (il documentario musicale su Napoli di John Turturro). Il risultato finale è però qualcosa di totalmente diverso. Cosa è successo nel mezzo?
Marco: «Oh che bello che c’è una giornalista che sa da dove arriva l’idea iniziale (ride, ndr)! Sono giorni che la ripetiamo, e in italiano, e in inglese e in francese. Visto che mi arrivi preparata ti dico la verità: non mi ricordo mica cosa c’è stato nel mezzo….»
Ok, allora cambiamo un po’ la domanda: di quali suggestioni si è nutrito Ammore e Malavita?
Marco: «Dalla proposta del sequel di Passione è arrivata l’idea di fare un musical napoletano, un musical sulla Camorra. Poi, chiacchierando tra di noi, è venuta quest’altra immagine di un killer che deve compiere un omicidio ma nel momento di sparare scopre che la persona che deve uccidere è in realtà la sua fidanzata di quando era un adolescente».
Antonio: «E poi c’è stata anche una canzone ci ha ispirato tantissimo: una cover di ‘O motoscafo di Pino Mauro cantata da Franco Ricciardi. Volevamo un film con quel tipo di musica napoletana».
Eravate degli amanti di musical prima di questa esperienza?
Marco: «Non proprio. Per fare Ammore e Malavita, però, ne abbiamo guardati tantissimi, più che altro per capire i rischi del genere. E così abbiamo scoperto che ci sono musical con troppe canzoni come Sweeney Todd (a un certo punto mi volevo buttar giù dalla finestra, non ne potevo più…), oppure musical troppo teatrali dove anche un semplice dialogo “Come stai? Bene” sembra un pezzo di un’opera lirica. Il nostro preferito è Greese: perfetto nell’equilibrio tra parole e canzoni. Lì le canzoni portano avanti la storia, ti dicono qualcosa in più della trama, ma sono anche brani con una vita propria al di fuori del film».
In Italia non si fanno molti musical. Personalmente, l’ultimo che mi ricordo è Sogno il mondo il venerdì di Pasquale Marrazzo presentato nel 2009 al Festival di Locarno: era ambientato nella periferia di Milano ed era un po’ un mix tra poliziesco, documentario sociale e musical. Lo conoscete?
Marco: «No, ma dai, non ne sapevo l’esistenza! Va assolutamente visto».
Antonio: «Sì, in Italia si fanno pochissimi di musical. Io ricordo solo i film di Roberta Torre. Comunque, a noi non preoccupava fare una cosa poco fatta in Italia. Nella nostra carriera, abbiamo sempre fatto cose poco fatte in Italia».
Marco: «C’è da dire che il lavoro dietro un musical non appartiene molto al modo italiano di fare film. Nei musical tutto deve essere preparato con grande precisione e con grande anticipo, a partire dalle canzoni che devono essere scritte e registrate ben prima dell’inizio delle riprese. Ci vuole tempo e fatica; non ti dico che gli italiani non fatichino a fare i film ma sono poco preparatori. E invece il musical richiede una preparazione pazzesca».
Come una filastrocca nota, ultimamente si continua a ripetere che grazie a Suburra, Lo chiamavano Jeeg Robot e Veloce come il vento c’è ormai una maggiore attenzione verso il cinema di genere in Italia. È così, o è qualcosa che ci si racconta tra noi giornalisti, registi e addetti ai lavori? Lo chiedo a voi perché il genere lo praticate da sempre.
Antonio: «Le cose stanno un po’ cambiando. La dimostrazione è che il nostro film è ora distribuito da 01 ed è in concorso al Festival di Venezia; prima i nostri film rimanevamo nel nostro piccolo mondo, eravamo poco considerati. Però voglio precisare che secondo me né Suburra né Gomorra sono produzioni di genere. Per noi il genere è la totale assenza di impegno sociale, di cronaca; il genere deve rimanere nella fantasia. Come spettatori, a noi piacciono i film dove c’è azione e fantasia, e quindi cerchiamo di fare questi film anche come registi».
Il musical è il genere per eccellenza meno realistico e più legato al sogno. Però è anche vero che Ammore e Malavita affonda profondamente le radici nella realtà di Napoli. Insomma c’è fantasia ma anche verosimiglianza. Come avete lavorato su questi due livelli?
Marco: «La nostra verosimiglianza è nella recitazione, nei dialoghi, nelle location, ma non nell’intenzione. Mi spiego meglio: non vogliamo fare un cinema che assomigli alla realtà ma un cinema che racconti delle storie sopra le righe, fantasiose e romantiche che vengono poi vissute come la realtà. E in questo il musical ti permette di lavorare molto con la fantasia: in un momento storico in cui spopola l’immaginario del male di Gomorra, noi siamo riusciti a fare un film dove i camorristi sono simpatici, e ci siamo riusciti facendo un musical. Un nostro amico e critico inglese ha scritto: nella prima scena di Ammore e Malavita vedi un morto che canta e allora capisci che non devi prendere niente sul serio. In questo senso il musical ti dà il potere della libertà».
Che riscontri avete avuto dalla stampa internazionale? C’è interesse? Avete fatto interviste con giornalisti stranieri?
Marco: «Finora abbiamo letto un paio di recensioni, una molto negativa (era americana) e una positiva. Poi siamo stati intervistati da cinesi, brasiliani, russi; ed è uscito anche un pezzo molto grande, di una pagina intera, sul El Pais di questo giornalista spagnolo esaltatissimo dal nostro film. Siamo contenti anche perché secondo me c’è un’idea un po’ provinciale sul nostro cinema».
In che senso?
Marco: «In molti pensano che per fare un film italiano che piaccia in America, si debba far sembrare americana l’Italia. Proprio per Ammore e Malavita ci hanno detto: ma non ci sono troppi riferimenti locali? Cosa ne può capire uno straniero de Il marchese del Grillo? È un ragionamento insensato: quando io guardo un film americano i personaggi parlano spesso di cose che non conosco, ma non per questo ne sono respinto. Anzi, ne sono incuriosito».
Antonio: «E infatti agli americani è piaciuto La grande bellezza».
Questo discorso mi fa venire in mente Loving Pablo, il biopic su Pablo Escobar presentato proprio qui a Venezia dove gli attori spagnoli o colombiani hanno recitano in inglese per rendere il film più internazionale…
Marco: «Assurdo. Non so come i registi possano abbassarsi a questa richiesta. È una cosa che combattiamo da sempre, c’è capitato spesso che un produttore ci proponesse di girare un nostro film in inglese per il mercato internazionale. Ma no! Io giro in inglese solo se devo fare un film ambientato a New York e con attori inglesi. La trovo una scelta umiliante: quanto siamo colonizzati per accettare questa cosa?».
Cambiando argomento, Donna Maria (il personaggio di Claudia Gerini) in Ammore e Malavita è la moglie di un boss della Camorra appassionatissima di cinema che addestra i suoi scugnizzi come nei film di Bruce Lee e continua a guardarsi Notting Hill? Quali sono le vostre ossessioni cinematografiche? I film che vi riguardate spesso? Anche voi Notting Hill, giusto?
Antonio: «Ma sì anche Notting Hill ci piace molto. Il film che abbiamo visto più spesso nella nostra vita è Frankenstein Junior, ma in realtà non tendiamo a rivedere gli stessi film. Tra i nostri preferiti ci sono Brian De Palma, Carlito’s Way soprattutto, e Hitchcock».
Marco: «Il regista che più vorrei essere è John Carpenter. Se dovessimo scegliere un film preferito sarebbe 1997 Fuga da New York».
Napoli è molto presente qui al Festival di Venezia, anche Gatta Cenerentola ne dà una rappresentazione originale. Lo avete visto?
Antonio: «Purtroppo no. Ne abbiamo visto solo dei pezzi quando ci stavano lavorando: il produttore di Gatta Cenerentola Luciano Stella è anche un nostro “quasi” produttore associato e lui ci ha mostrato diverse cose: da quel che abbiamo sbirciato è un lavoro incredibile»
Marco: «Un film d’animazione fatto così bene, con così pochi soldi e così poche persone è una cosa che poteva accadere solo a Napoli. Ci tengo a sottolinearlo».
In Ammore e Malavita avete voluto inserire sottotraccia una riflessione sulle contraddizioni di Napoli, sulle sue luci e ombre?
Antonio: «Il nostro è un film con una storia avvincente e romantica, non vogliamo fare discorsi su Napoli. Detto questo, ultimamente si vede una Napoli che è molto ombra, mentre noi abbiamo voluto mostrare una nostra Napoli dove l’ammore (con due “m” ovviamente!) illumina l’ombra. È l’amore il traino del film»
Marco: «Vedi che Notting Hill ci piace davvero? Siamo dei romantici!».
Prossimi progetti?
Marco: «Abbiamo appena finito di girare a Bologna l’ultima stagione di L’ispettore Coliandro. Ma per il resto siamo un po’ dispersi nel nulla… Stiamo aspettando che arrivi l’idea geniale».
E come arrivare l’idea geniale?
Marco: «Ti confesso il mio metodo, dai. Io da bambino avevo il mito di Agatha Christie e avevo letto che lei, per farsi venire delle idee per i suoi gialli, si metteva dentro la vasca da bagno con una mela. Be’, anche io ogni tanto faccio così: mi faccio un bagno con una mela in mano!»
Funziona?
Marco: «No. Molto meglio la doccia! Ho scoperto che molte grandi idee mi vengono sotto la doccia, in realtà».