Nasce a Beirut nel 1963, Ziad Doueiri, e cresce durante gli anni in cui infiamma la guerra civile che sarà combattuta nel Paese tra il 1975 e il 1990. A vent’anni scappa in direzione degli States, si laurea in cinematografia alla San Diego University e da lì comincia una carriera che, da aiuto regia lo porterà a essere operatore di macchina e infine, regista. I suoi lavori per il mercato occidentale iniziano a raccogliere premi in giro per il mondo, ma il giovane regista libanese è inquieto, sa che ci sono altre storie da raccontare, sa che le tensioni con cui è stato costretto a convivere nella prima parte della sua vita, possono essere pienamente esorcizzate soltanto affrontandole attraverso il percorso che ha fatto nella seconda.
E questo è L’insulto, un film che mette in scena il conflitto morale, etico, personale con cui ancora si vive a Beirut, affrontandolo con una messa in scena e un’analisi che più occidentale non potrebbe essere.
Toni (Adel Karam) è l’irascibile e taciturno proprietario di un’officina, padre di famiglia e cattolico libanese.
Yasser (Kamel El Basha), palestinese, è un preparato e metodico capocantiere, che vive con sua moglie in un campo profughi.
Quando Yesser si accorge che la grondaia, non a norma, di Toni rischia di bagnare i passanti creando problemi al suo lavoro, cerca di convincere il meccanico della necessità di ripararla. Scoprendo che, nonostante il suo netto rifiuto, Yesser è riuscito a sistemarla lo stesso, Toni gli si accanisce contro, distruggendo insensatamente il lavoro del capocantiere.
Yesser, che era stato attento e gentile fino a quel momento, sbotta e insulta pesantemente il libanese, innescando una slavina di eventi che crescerà al punto da coinvolgere l’intera nazione.
Quello che fino a quel momento, non sembrava altro che un film perfettamente inseribile nel solco tracciato dai grandi (e apprezzatissimi all’estero) lavori di Asghar Farhadi, sorprendentemente inizia ad allontanarsi dalla dimensione intima del quartiere trasformando il dilemma personale in questione universale.
E se l’insulto genera una semplice richiesta di scuse, quelle arrivano sotto forma di pugno nello stomaco e tre costole rotte quando Toni, fomentato da discorsi razzisti e populisti della classe dirigente (non troppo distanti, in verità, da quelli che siamo abituati a sentir pronunciati dalle bocche di certi politici italiani) grida a Yasser che Ariel Sharon avrebbe dovuto sterminare tutti i palestinesi.
Così, tra un meccanico che non può più lavorare per le fratture, e un capocantiere che non può più presentarsi al lavoro, il conflitto finisce nelle mani degli avvocati e il film di Ziad Doueiri prende il suo aspetto definitivo assumendo, a tutti gli effetti, i connotati del perfetto legal-thriller.
Talmente perfetto da risultare, in qualche misura, sospetto.
Non tanto sulla validità della sua messa in scena, che è fuori di discussione, quanto su una scrittura che lavora con tutte le sue forze per equilibrare costantemente le parti in causa senza pendere mai da un lato o dall’altro e semplificando a uso e consumo dello spettatore più inconsapevole, tutte le sfumature del conflitto pur di arrivare a un’audience più eterogenea possibile. Il tribunale ci viene presentato come il luogo principe del politicamente corretto dove a una donna giudice fanno da assistenti due uomini e in cui l’avvocato dell’accusa e quello della difesa sono padre e figlia, così da sottolineare quanto la problematica, sia anche generazionale, oltre che etica. Le scene di vita famigliare, che fanno da contrappunto all’evolversi del processo, sono rappresentate in maniera tale da fornire sempre ulteriori elementi per la comprensione delle motivazioni altrui, senza mai però generare un vero confronto sull’argomento. I personaggi non scardinano le loro convinzioni, semmai accettano che possa esistere un altro punto di vista.
Il dubbio non nasce mai dal percorso personale, da un’interiore lavoro sul conflitto, ma è esplicitato col semplice guardare negli occhi il bagaglio esperienziale altrui. Tutti i personaggi rimangono così fedeli al ruolo che gli è stato imposto dall’alto affinché questo grande racconto risulti il più chiaro possibile, senza infastidire nessuno.
Una delusione, quindi? No. Assolutamente.
Perché, nonostante tutto, il finale si prende la responsabilità di una scelta che non sia la superficiale giustificazione: “Tutti hanno i loro motivi per soffrire”, ma anche, e soprattutto, la solidità del racconto serve bene le grandi ambizioni di Ziad Doueiri che, con una regia sempre accurata e un’ottima direzione degli attori, mette in scena qualcosa che difficilmente siamo abituati a vedere nella cinematografia mediorentale. Il conflitto tra Toni e Yasser, infatti, travalica presto i confini del loro quartiere e iniziando a diventare un caso mediatico sempre più importante, arriva prima a coinvolgere la città di Beirut e poi l’intera nazione, fino a scomodare l’intervento del presidente stesso.
Un approccio da kolossal moderno in cui è evidente quanto gli studi negli States abbiano influito sull’occhio del regista libanese che confeziona e consegna una commistione strana di elementi, che riescono però a fondersi miracolosamente, lasciando senz’altro affascinati.
Un’occasione unica, anche per il meno attento pubblico della sala, di poter approcciare le motivazioni di un conflitto lontano, dai contorni così sfumati da risultare spesso inconfondibili.
L’insulto uscirà in Italia distribuito da Lucky Red.
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