Charley Thompson (Charlie Plummer) è un quindicenne americano senza madre. Un ragazzino randagio, costretto a una vita irrequieta e senza il minimo punto di riferimento da un padre privo di stabilità economica e lavorativa. Vorrebbe diventare un campione di football, ma è solo un adolescente girovago e senza fissa dimora. La sua vita cambia, nella maniera più impercettibile possibile, quando conosce Del (Steve Buscemi): un addestratore di cavalli da corsa alcolizzato, dai modi spicci e dal temperamento pratico. Charley intreccia un legame molto speciale con Lean on Pete, il più debole, in apparenza, tra i due cavalli dell’uomo.
Andrew Haigh è un giovane regista inglese che può essere annoverato senza ombra di dubbio tra i più stimolanti e sofisticati talenti emersi nel cinema europeo negli ultimi anni. Un cineasta di razza, che riesce a fare le cose più difficili facendole sembrare semplicissime e naturali: c’era riuscito con Weekend, melodramma gay dal tocco impressionista, e ancora di più, francamente, col successivo 45 anni, straziante storia sulle possibilità mancate delle nostre vite vissute a metà. O, forse, non vissute affatto.
Il suo ultimo film in concorso a Venezia quest’anno, Lean on Pete (letteralmente: affidarsi a Pete), conferma che abbiamo a che fare con uno sguardo di rara sensibilità, da preservare e da tenere d’occhio: un regista delicato che sa muoversi tra le cose del mondo con pacatezza. Haigh sta dalla parte dello spettatore, non si mette al di sopra delle storie che racconta, accarezza dolcemente le sue immagini per far sì che chi guarda le riceva con altrettanto pudore e le custodisca nel modo più agevole possibile.
È così anche in Lean on Pete, quarto lungometraggio di Haigh tratto dal romanzo La ballata di Charlie Thompson di Willy Vlautin. Un film in cui assistiamo solo e soltanto al peregrinare di un giovane uomo, acerbo e forse impassibile: un percorso a tappe che si articola attraverso personaggi tipici e passaggi obbligati, archetipi del West americano ed elementi tipici del Mito della frontiera. Un’epopea dal basso che Haigh rilegge alla sua maniera, con una vocazione sommessa per cui sembra che non succeda mai nulla (è la provincia, dopotutto), ma tutto è già nei dettagli che le immagini silenziosamente e amorevolmente ci offrono. I campi lunghi di struggente bellezza, poi, sono tantissimi.
Un modo di affrontare il genere controcorrente? Senz’altro, ma anche una lezione di misura, di equidistanza e di umanità di cui il cinema contemporaneo ha senz’altro ancora bisogno. Siamo di sicuro lontani dalla devastazione emotiva dei precedenti, superiori lavori di Haigh, ma questo sodalizio tra un cavallo zoppo e il personaggio dell’ottimo Charlie Plummer, prossimamente in All the Money in the World di Ridley Scott (candidato ideale al premio Mastroianni al miglior esordiente) ha lo stesso sapore antico e confortevole di un ideale film d’amicizia della Disney immaginato da John Steinbeck o dal compianto Sam Shepard: un gusto da tastare a piccoli sorsi, prendendosi una pausa e lasciandosi cullare. Come da una ballata malinconica, appunto, o da un ultimo tramonto.
Qui la nostra sezione dedicata alla 74esima Mostra del Cinema di Venezia.
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