«Sono ossessionata dalla morte, ci penso sempre. Se siete mie amici probabilmente vi ho immaginato morti. La maggior parte delle persone pensa ‘Cosa farei se vincessi un milione di dollari?’, io invece penso ‘Cosa farei se Jenny morisse?’». A dirlo è la stand-up comedian Carmen Lynch nel cortometraggio diretto da Chloë Sevigny e presentato a Venezia in occasione delle Miu Miu Tales.
E qualcosa di simile ha detto ieri Paolo Virzì durante l’incontro con i giornalisti che s’è tenuto in occasione di The Leisure Seeker (o Ella e John, titolo con cui il film arriverà in sala a gennaio in Italia), prima opera americana del regista, quella che gli ha fatto ricalcare il palcoscenico della Mostra del Cinema di Venezia, a venti anni esatti da Ovosodo.
Stanno infatti morendo Ella e John, ognuno a modo suo. Lui (Donald Sutherland) sta morendo nella mente più che nel corpo, e dell’uomo che è stato sembra essere rimasto intatto solo il professore. Forse è Alzheimer, forse demenza senile, cambia poco. Il risultato è che stenta a riconoscere e a ricordare, finendo con il rifugiarsi dentro le citazioni di Joyce, Melville ed Hemingway. Lei, Ella (Helen Mirren), invece è malata fino all’osso, ha un tumore in fase terminale. Capiamo pian piano che è proprio questo che li ha spinti a sovvertire una quotidianità fatta di cure mediche e attenzioni mal gestite da parte dei figli ormai adulti, e partire per un viaggio a bordo del loro vecchio camper, comprato negli anni Settanta, compagno di giorni passati e felici, e soprannominato The Leisure Seeker, cioè “Il ricercatore di svago”. E svago otterranno, assieme a litigi, ricordi, lacrime, sorrisi, baci, pipì a letto, sospiri, diapositive.
Per il suo primo film in lingua inglese il regista livornese ha chiesto e ottenuto due grandi interpreti americani, li ha vestiti d’una tenerezza burbera un po’ alla Sandra e Raimondo, e li ha messi in viaggio per raccontare prima se stessi e poi l’America delle manifestazioni pro Trump (cui – è detto chiaramente – solo un malato di mente vorrebbe voler partecipare), degli hamburger extralarge, e dei luoghi di grande paesaggio ma poca storia, d’un paese che la propria storia deve ancora trovarla.
Così se la casa dove ha vissuto Hemingway è l’obiettivo dichiarato, come in ogni road movie che si rispetti quello che conta è il viaggio. È vero, la denuncia sociale e politica, sempre presente nei film di Virzì, è qui solo accennata, ma è anche vero che il registra sembra farsi trascinare dagli interpreti più che guidarli su una strada già segnata. Ma con dei mostri sacri di tal portata e una sceneggiatura così ben scritta (a volte troppo…) è giusto volersi godere lo spettacolo. E allora lo spettatore disposto a muoversi in un’America diversa, lontana dalla Route 66 e cromaticamente più affine ai verdi e gli azzurri delle colline fiorentine, e a commuoversi di fronte a un amore romantico e doloroso come una canzone di Janis Joplin, non potrà che voler bene a un film che alla fine quel che si domanda è: siamo in paradiso?
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