C’è una guerra sporca che brucia il mondo e i diversi. In quella guerra sporca c’è un circo e dentro al circo quattro freaks che strappano sorrisi all’orrore. Matilde (Aurora Giovinazzo) è la ragazza “elettrica”, Fulvio (Claudio Santamaria) l’uomo lupo, Mario (Giancarlo Martini) il nano calamita, Cencio (Pietro Castellitto) il ragazzo degli insetti. A guidarli è Israel (Giorgio Tirabassi), artista ebreo e “terra promessa”, che ha inventato per loro un destino migliore.
Assediati dai nazisti, che hanno occupato Roma e soffocato ogni anelito di libertà, decidono di imbarcarsi per l’America ma inciampano nell’ambizione divorante di Franz (Franz Rogowski), pianista tedesco e direttore artistico del Zirkus Berlin, con troppe dita e poco cuore. Strafatto di etere, Franz vede il futuro e vuole cambiarlo: la Germania non perderà la guerra. A confermarlo sono i suoi deliri, a garantirlo i superpoteri di Matilde, Fulvio, Mario e Cencio. A Franz non resta che scovarli.
La sfida che Gabriele Mainetti si è sobbarcato con Freaks Out è considerevole: dopo il successo a sorpresa de Lo chiamavano Jeeg Robot, prototipo anche suo malgrado di nuova via italiana al cinecomic “di borgata”, questo kolossal nostrano totalmente bigger than life rispetto agli standard produttivi, industriali e artistici italiani è un azzardo ben più grande e che tuttavia mantiene intatta l’anima del film precedente, forte di un abito formale di gran fattura e di un artigianato di livello altissimo e a tratti impressionante.
Anche in questo caso, infatti, i protagonisti sono dei reietti espulsi, probabilmente fin dalla tenera età, dalla vita sociale, dei bizzarri saltimbanchi che trovano nel circo il loro unico territorio d’elezione e d’espressione. Dei Fantastici 4 nei quali una di loro, Matilde, che finirà con l’essere una sorta di Fenice degli X-Men, è una giovane donna-lampadina chiamata e illuminare la via, a suggerire la strada maestra del sentimento per far fronte alla rozzezza scalmanata degli altri membri del gruppo, più selvaggi e tutti d’un pezzo nell’esposizione dei loro istinti bassi e nell’abitare uno strampalato e scombiccherato posto nel mondo.
Matilde fa tutto ciò, in Freaks Out, pur tra le mille insicurezze che la riguardano, ed è un esempio di resistenza femminile ostinata ed efficace anche quando impreparata come lo era l’Alessia di Ilenia Pastorelli ne Lo chiamavano Jeeg Robot. Il suo punto di vista è il cuore morale del film e Mainetti la utilizza non a caso come sommo veicolo di poeticità spielberghiana, come piccolo, tenero faro di tutta la sua operazione titanica. Lo sfondo è quello di una pagine più nere del 20esimo secolo, mentre Freaks Out è al contempo avventura, spettacolo pirotecnico e dinamitardo, war movie e coming of age, con a fare da collante una smisurata, spassionata e perfino commovente adesione emotiva e identitaria alla nozione di diversità.
Con queste premesse si fa davvero fatica a uscire delusi dalla sospirata opera seconda di Mainetti: la messa in scena è un congegno a orologeria dove ogni dettaglio rispecchia forsennatamente tutta la passione del suo autore per la materialità flagrante degli immaginari pop e ciò che ne viene fuori è una sorta di ottovolante che somiglia a poche altre cose, di macabro luna park in cui la post-adolescenza circense è parco giochi ma anche scatola degli orrori.
C’è talmente tanto di tutto, in Freaks Out e nella sua idea performativa di cinema e intrattenimento popolare, che talvolta l’apparato messo in campo pare mangiarsi perfino la storia e i personaggi, producendo un andamento narrativo che a tratti è di una compattezza un po’ monocorde e in altri casi un po’ esile e sbalestrato. Assolutizzare quest’aspetto della sceneggiatura di Mainetti e Nicola Guaglianone vorrebbe però dire fare un torto a una visione d’insieme letteralmente da far tremare i polsi, per coraggio e coscienza dei propri mezzi, per avventatezza e spudoratezza passionale; basti pensare anche solo all’elettrizzante e supersonico dispiegamento di mezzi e alle tantissime linee dinamiche d’azione dell’immane scontro finale.
Freaks Out dura 141’ ed è una durata che colloca le ambizioni di Mainetti dalle parti dei grandissimi, dei Leone (come confermano anche i titoli di testa e le loro sonorità) e dei Tarantino, visto che alla fine della fiera siamo di fronte anche a una sorta di risposta favolistica e utopica – ma tutt’altro che esclusivamente solare – alla vena apocrifa di Bastardi senza gloria. Tagliare ulteriormente le quasi tre ore di montaggio iniziale avrebbe forse giovato a smussare certe lungaggini ma avrebbe anche tolto linfa a tale slancio, che per il nostro cinema non può che essere un balsamo e un esempio da imitare di dolce e feroce irruenza stilistica, in virtù della quale le carneficine sono filmate con lo stesso amore certosino che si dedica ad esempio al bellissimo personaggio di Giorgio Tirabassi e si fondono insieme anacronismi con nazisti da fumetto che cantano Creep dei Radiohead e primissimi modelli di iPhone che sono portali su un futuro forse ancora tutto da scrivere.
Freaks Out, e non è certo un caso, parla anche dell’eterno conflitto tra l’auto-assoluzione vittimista e la presa di coscienza delle proprie possibilità, tra il vivere ai margini come outcast e ritrovarsi a essere nonostante tutto eroi e deus ex machina di una possibile liberazione. Parla di mostri che agiscono come uomini e uomini che si comportano da mostri, certamente, ed è a suo modo anche un’armata Brancaleone per millennial che ha tutte le carte in regola per scaldare il cuore di più generazioni e spettatori, tra vertigini ipercinetiche e stratificazioni liriche sicuramente in grado di crescere in modo esponenziale visione dopo visione.
Il tutto in un raro, rarissimo esempio di cinema fantastico e del/sul fantastico tutto italiano, che prende solo le mosse dai fondali del neorealismo per fare piazza pulita di ogni eredità nobile del passato e inseguire esclusivamente la propria gioiosa, ostinata, adolescenziale idea di folgorazione.
Foto: Goon Films/Lucky Red/Rai Cinema
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