Intanto questo: Spencer non risolve il paradosso di tutta la fiction dedicata alla Principessa di Galles, da The Crown al film di Pablo Larraín presentato in Concorso alla scorsa Mostra del cinema di Venezia: la prospettiva è apologetica, il tono affettuoso – perfino protettivo -, ma la ricostruzione riguarda comunque il privato, solletica e si nutre della curiosità da rotocalco, è l’intrusione del cinema-guardone dietro le tende della corte. Un paradosso giustificabile solo perché furono proprio le celebri cassette registrate dalla stessa Diana e inviate al giornalista Andrew Morton, a svelare fatti e dettagli che oggi vengono riciclati da film e serie tv.
Fatta questa premessa veniamo al sodo: Spencer racconta il Natale del 1993 nella proprietà di Sandringham, sede tradizionale dei festeggiamenti della Regina. La scelta (lo sceneggiatore è Steven Knight) non è casuale: a Sandringham Diana (Kristen Stewart) è nata, e dal palazzo dove si trova riesce a vedere i campi in cui è cresciuta, c’è perfino uno spaventapasseri che veste un vecchio impermeabile del padre. Tra lei e la famiglia reale regna da tempo il gelo, tanto che un ex soldato (Timothy Spall) è stato ingaggiato al solo scopo di spiarla e ricordarle i suoi impegni ufficiali. Gli unici amici sono il capocuoco Darren (Sean Harris) e la sarta Maggie (Sally Hawkins), mentre i figli assistono impotenti alla crisi di nervi della madre. Sarà l’ultimo Natale tutti insieme prima della separazione da Carlo, che ha smesso da tempo di nascondere la sua relazione con Camilla Parker Bowles.
Spencer completa nella filmografia di Larrain una specie di trilogia assieme a Neruda e Jackie, ma ha alcune cose in comune anche con la serie che il regista cileno ha girato per Apple, Storia di Lisey, tratta da un libro di Stephen King. Più che cinema come morte al lavoro, è la morte che ha già fatto il suo corso, un vero e proprio teatro di fantasmi. Sandringham sembra l’Overlook Hotel di Shining (il parallelo tra Darren e il barista Llloyd del capolavoro di Kubrick è quasi sfacciato), un luogo dove la ragione va in pezzi, le identità si confondono ed è impossibile distinguere i vivi dai defunti. Tra le stanze della corte vaga perfino Anna Bolena, suscitata da una biografia che qualcuno ha lasciato sul letto della principessa (o forse no) e premonizione del suo destino di sventura.
Tutto il film è quindi la proiezione mentale del disagio di Diana, la messa in scena del suo punto di rottura, gli altri personaggi della famiglia reale restano sfocati (spesso letteralmente) al margine dell’inquadratura, ci sono appena due brevi dialoghi con Carlo e uno solo con la regina, nessuno – a parte i figli Harry e William (ancora Shining) – ha consistenza al di fuori dello sguardo di Lady D, le porte si aprono sempre su stanze vuote.
Così Larrain si conferma un biografo “post mortem”, come il titolo di uno dei suoi film più belli, la storia delle persone e dei paesi per lui non è mai abitata quanto piuttosto infestata, proprio come le case che appaiono nei suoi film (pensate anche a Il club). Se quasi tutti i suoi lavori sono horror camuffati, questo camuffato lo è meno di tutti, con tanto di escalation finale da brividi.
C’erano molti modi in cui Spencer avrebbe potuto confondersi e mettersi in competizione con la serie Netflix sulla famiglia reale, questo non lo è. Diana è un pretesto, la sua immagine è presa in prestito per una grande performance di scrittura, messa in scena e recitazione. E oltre le stanze di palazzo, gli abiti da cerimonia, i pasti luculliani, quel che resta in testa alla fine, citando ancora King, è poco più di un “mucchio d’ossa”, la carcassa di uno spaventapasseri nel gelo della campagna inglese. Cioè un film di puro genere.
Foto: Komplizen Film, Fabula, Shoebox Films
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