Paul Schrader, regista e sceneggiatore simbolo della Nuova Hollywood, torna a Venezia quattro anni dopo First Reformed e lo fa con un altro film diretta espressione della sua sensibilità artistica: The Card Counter (Il collezionista di carte nel titolo italiano).
Per sfuggire al proprio passato da torturatore nella prigione irachena di Abu Ghraib, William Tell (Oscar Isaac) si distrae giocando d’azzardo, specialmente blackjack. Passa da un casinò all’altro, sfrutta la sua abilità nel contare le carte e vince così buone somme ma abbastanza modeste da non attirare l’attenzione. Una vita governata da freddi numeri e statistica, che gli permettono di non pensare agli orrori di cui è stato testimone e fautore.
A cambiare le cose è l’incontro con il giovane Cirk (Tye Sheridan), figlio di un altro ex torturatore. L’oscuro passato del padre ha avuto pesanti ripercussioni sulla madre e sul ragazzo, vittima di abusi e ora in cerca di vendetta contro il maggiore dell’esercito (Willem Dafoe) che ha formato entrambi i carcerieri. Tell potrebbe facilmente cedere al richiamo della vendetta, ma sceglie di giocare diversamente la sua mano.
Il giocatore d’azzardo di Oscar Isaac si aggiunge alla lunga serie di personaggi drammaticamente vicini al loro punto di rottura tipici della filmografia di Paul Schrader. Ha molto in comune con Travis Bickle di Taxi Driver e il Toro Scatenato Jake LaMotta ma anche con il più recente pastore in crisi di fede interpretato da Ethan Hawke: personaggi soli o insofferenti rispetto alla propria condizione di vita, in cerca di una complicata affermazione, una faticosa redenzione o sul punto di cedere al richiamo di meno dispendiosa dannazione.
William Tell prova a restare dalla parte giusta della linea e per farlo accetta di partecipare ad alcuni tornei di poker, così da vincere soldi e salvare il giovane Cirk da se stesso. Il poker però è diverso dal blackjack: non contano solo le probabilità, ma bisogna saper leggere le emozioni e i segnali che arrivano dagli altri giocatori. Tra il fold e il river – la prima e l’ultima fase di una mano a Texas hold’em – può cambiare tutto e quella che sembrava una sicura vittoria si trasforma in pochi attimi in una irrimediabile sconfitta. Una situazione che consente la comoda ma puntuale analogia tra vita e gioco d’azzardo alla base di The Card Counter, film che non a caso fa scorrere i titoli di testa tenendo sullo sfondo le verdi trame di un tavolo da gioco.
Paul Schrader torna su temi che conosce personalmente – ha sofferto a sua volta di depressione, solitudine ed alcolismo – e allo stesso tempo coglie l’occasione per puntare il dito contro l’America che non ha esitato a ricorrere ad aberranti torture durante la guerra in Iraq. Gli orrori avvenuti nelle carceri di Abu Ghraib, Bagram e altri black site – raccontati in maniera più documentaristica in The Report di Scott Z. Burns – tormentano William anche al tavolo da gioco, prendendo le forme idiosincratiche di uno sfacciato avversario che veste a stelle e strisce (pur non essendo americano) ed ha costantemente qualcuno a tifare rumorosamente per lui.
Questa vena politica di The Card Counter conferma l’impostazione registica più antropologica che cinematografica di Schrader, che anche in questo caso predilige il potere strutturante del racconto a quello dell’immagine. Non scommette subito forte sulle emozioni, ma aspetta il river – l’ultima carta scoperta dal banco – per iniziare a puntare grosso e giocarsi il proverbiale asso nella manica, sfidando così lo spettatore a stare al suo gioco o ad abbandonare il tavolo.
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