Nel Montana degli anni ’20, Il carismatico allevatore Phil Burbank (Benedict Cumberbatch) incute paura e rispetto alle persone attorno a lui. Quando il fratello George (Jesse Plemons) porta a vivere nel ranch di famiglia la nuova moglie Rose (Kirsten Dunst) e il figlio di lei Peter (Kodi Smit-McPhee), Phil li tormenta finché non si ritrova vulnerabile alla possibilità di innamorarsi.
Il film di Jane Campion in Concorso a Venezia 78 è il ritorno alla regia della cineasta neozelandese dodici anni dopo l’ultima volta, che fu col dolcissimo e abbacinante Bright Star nel 2009. Ritroviamo l’autrice alle prese con una storia decisamente aliena, almeno nelle premesse, rispetto ai suoi consueti soggetti al femminile, nella quale ci viene presentato fin da subito un microcosmo predatorio ed estremamente fallico, dai contorni ferini e primordiali.
Primo film tutto al maschile della Campion, tratto dal romanzo omonimo di Thomas Savage del 1967, The Power of the Dog è però perfettamente inscrivibile, superata la soglia delle apparenze, nella poetica di quest’autrice che ha raccontato in più di un’occasione la fragilità degli esseri umani inserendoli in contesti illuminati, anche nelle condizioni di maggior durezza, da una forma di erotismo dello sguardo estremamente specifico, tanto lirico quanto languido e contemplativo (con tanto di auto-citazioni diffuse del film più celebre della Campion, Lezioni di piano).
In questo caso ci sono l’omofobia solo apparente del personaggio di Cumberbatch, la riscrittura della sessualità dei cowboy un po’ alla maniera de I segreti di Brokeback Mountain e la rilettura della proverbiale America profonda portata avanti da una narratrice decisamente votata a incrinare un immaginario che il cinema ha consolidato in lungo e in largo e portato sul grande schermo fino allo sfinimento. Senza contare che, nell’economia del cinema contemporaneo, il neo-western è un territorio apocrifo e revisionista decisamente privilegiato, come testimoniano film recenti e dall’estrema rilevanza identitaria come I fratelli Sisters di Jacques Audiard e First Cow di Kelly Reichardt, forse in tal senso la voce oggi in assoluto più decisiva.
Manco a dirlo è un film selvaggio, The Power the Dog, come selvaggio è lo sguardo della Campion. La sensazione è che però la sua indomabile attenzione ai chiaroscuri degli individui e delle loro anime tormentate si sia andata a scontrare con la confezione di un lungometraggio dall’apparato produttivo e dalla finalità distributive, targate Netflix, estremamente piane, distese ed immediatamente leggibili. Smarrendo così efficacia, perdendosi un po’ troppo in ridondanze e orpelli della confezione d’epoca e assestandosi a tratti dalle parti di una sorta di convenzionale origin story ideale e sotto mentite spoglie dell’Anthony Perkins/Norman Bates di Psyco di Alfred Hitchcock (a smussare la mascolinità tossica del personaggio di Cumberbatch ci pensa anche la colonna sonora ad hoc, ma non sempre centrata, di Jonny Greenwood dei Radiohead, mentre il cuore del discorso diventa il punto di vista sempre più sfaccettato del personaggio del giovane e bravissimo Kodi Smit-McPhee).
Se gli attori convincono senza grandi riserve, a cominciare dall’inglese Cumberbatch alle prese con una rozzezza a stelle e strisce estremamente sovraccarica e sopra le righe, lo stesso non si può sempre dire delle molteplici triangolazioni e traiettorie psicologiche tra i personaggi, mal servite da una scrittura che tende a fare confusione tra le diverse linee di racconto prima di approdare alla dannazione di un rapporto di mentorship pronta a far esplodere tensioni e conflitti sopiti.
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