Repubblica di Salò, all’indomani dell’8 settembre 1943. Mentre la Seconda Guerra Mondiale entra nell’ultimo e più sanguinoso periodo, il giovane Marco Laudato (Jacques Charrier), si arruola nella milizia del Duce senza troppa convinzione, ma intorno a lui vedrà solo scoramento e frustrazione. La sua iniziale spinta patriottica viene spazzata via dalla brutale violenza dei camerati contro gli altri italiani. Ferito, inizia una relazione con Anna, un’infermiera più grande di lui, che però poi fugge in Svizzera con il suo capitano. Unico sopravvissuto in guerriglia, ormai annichilito e sconvolto dagli orrori visti e perpetrati, si addormenta in mezzo ai cadaveri dei commilitoni.
Una storia, dolorosissima, al centro di Tiro al piccione, esordio alla regia di uno degli indiscussi maestri del cinema italiano, Giuliano Montaldo, che lo realizzò a quasi trent’anni dando vita un dramma bellico che raccontava il periodo la fase terminale del fascismo in modi e forme vibranti ed empatiche. Il regista dei successivi Giordano Bruno, L’Agnese va a morire e Sacco Vanzetti, di recente anche attore sorprendente e commovente per Francesco Bruni in Tutto quello che vuoi, lo presentò al Festival di Venezia nel 1961, non senza mugugni e bagni di sangue presso la critica dell’epoca per l’assenza di una condanna esplicita ai fascisti rappresentati. E oggi, con lo stesso film, fa ritorno alla Mostra a sessant’anni di distanza da quell’esperienza bruciante: un tuffo nel passato da pelle d’oca, considerando che Montaldo, di fatto, non rivede il film da allora.
L’opportunità gli viene offerta dalla presentazione in anteprima mondiale, nella sezione Venezia Classici, del restauro di Tiro al piccione, realizzato in 4K a cura di CSC – Cineteca Nazionale presso i laboratori di Istituto Luce – Cinecittà a partire dal negativo originale 35mm messo a disposizione da Surf Film e da un positivo sonoro ottico e un lavanda conservati negli archivi della Cineteca Nazionale (la supervisione al restauro del suono è stata realizzata a cura di Federico Savina). Per l’occasione abbiamo avuto modo di intervistarlo, inoltrandoci insieme a Montaldo nella lavorazione del film, opera decisamente da riscoprire e rivedere con nuove lenti d’osservazione rispetto alle prese di posizione ideologiche dell’epoca, e nei suoi strascichi.
Come andò la genesi di Tiro al piccione?
Avevo fatto l’aiuto regista per Gillo Pontercorvo, Carlo Lizzani, Elio Petri. Mi sentivo pronto all’esordio. Ho cominciato a lavorare nel ’50 come attore e dieci anni dopo mi sentivo ormai sufficientemente preparato per questo passo. Un produttore mi chiamò nel suo ufficio e mi propose di leggere il libro omonimo e autobiografico di Giose Rimanelli, che raccontava di un giovane che aveva sbagliato strada. La sceneggiatura era di Luciano Martino, Fabrizio Onofri ed Ennio De Concini, quindi mi sentivo abbastanza solido e con le spalle coperte.
Quello che lei coglieva era un momento molto doloroso della nostra storia.
In quel momento i partigiani non esistevano ancora e il protagonista decide così di buttarsi dall’altra parte, vivendo un’avventura durissima in cui arriva a fucilare il suo migliore amico, Elia, che era interpretato da Francisco Rabal. Un percorso davvero terribile. Nel cast avevo anche Eleonora Rossi Drago, nei panni di Anna, e Gastone Moschin, praticamente all’esordio.
L’accoglienza veneziana dell’epoca fu molto controversa e decisamente spaccata in due. Che ricordo ne ha?
Ho memoria degli applausi del pubblico, ma accanto a me, alla proiezione ufficiale, sentii subito il vociare contrario della critica, che con me fu decisamente severi e anche qualcosa di più. Spararono, ma il piccione ero io. Mi sentii travolto da quest’ingiuria e andai via quasi col desiderio di cambiare mestiere.
Probabilmente non gli perdonarono l’empatia e l’adesione che lei mise nel racconto. Una sorta di peccato d’emotività.
Non lessi le stroncature, ma ero sempre stato di sinistra, frequentando un mondo di compagni e amici, e mi sentii ripudiato. Il dolore nel non essere compreso è stato tremendo. Da lì a poco mi arrivarono però delle telefonate da Milano di persone che non conoscevo, pur sapendo benissimo chi erano.
Di chi si trattava?
Erano un certo Ermanno Olmi e un certo Tullio Kezich, che avevano visto il film, uscito in sala subito dopo Venezia. Non sapevano il mio stato d’animo, ma era come se lo intuissero. Mi dissero di non leggere ciò che stavano scrivendo e mi diedero forza. Mi telefonò anche qualche politico, in disaccordo sull’accoglienza del film, e soprattutto incontrai colei che oggi è mia moglie e collaboratrice, Vera Pescarolo Montaldo, che insieme al fratello mi spinsero a rimanere a Roma. Io, invece, me ne volevo andare! Non fosse stato per lei, sarei tornato a Genova a fare il portuale.
In quegli anni in Italia esordivano anche i vari Pasolini, Damiani, De Seta, i da lei citati Olmi e Petri.
Tutti i miei amici registi in effetti avevano iniziato alla grande, mentre io mi sentivo mortificato. Sono poi tornato a Venezia con altri film e fortunatamente è andata un po’ meglio. A Venezia ho anche girato dei momenti di Giordano Bruno e il primo esperimento in alta definizione con Vittorio Storaro (Arlecchino, dr), col quale andammo a Tokyo e condividemmo una grande eccitazione. Parlammo però con una persona, un romano di cui non ricordo il nome ma era stato messo al suo posto dalla politica del tempo, che ci disse: “Ma de che state a parla’? L’alta definizione era morta prima di nascere”. Anche per Lizzani, quando dovette fare Achtung! Banditi! (dove Montaldo interpretava il commissario partigiano Lorenzo, ndr), la cosa più pericolosa fu la censura preventiva. La censura che viene dopo in confronto non è nulla di che, quella precedente che ti diceva cosa potevi fare o non fare è molto più pericolosa. Che i panni sporchi andassero lavati in famiglia dopotutto non l’ho detto io, ma qualcuno che contava molto.
Lei verrà giudicato in queste ore da una giuria di giovani che premieranno il miglior restauro di Venezia Classici e vedendo il film oggi per la prima volta – le confesso che non l’avevo mai visto – risalta la sua comunque non indifferente modernità stilistica: i tagli delle inquadrature, l’attenzione ai volti, un protagonista pervaso da una sorta di noluntas, dall’assenza di volontà: le reali motivazioni delle sue scelte, semmai ci sono, non sembrano dialogare con ciò che ha intorno. Era una scelta precisa o il protagonista non soddisfò le sue attese?
Devo dire che arrivò così soprattutto perché l’aveva appena lasciato Brigitte Bardot! Era in ciondoli, stava davvero sotto un treno e a me toccava tirarlo sù. Ogni tanto arrivava qualcuno e gli chiedeva: “Com’è la Bardot?”, non sapendo che si erano appena lasciati. Nel ripensare al sentimento del film però ho un po’ d’impaccio, perché non lo rivedo da allora ed è passato davvero tanto tempo. Nonostante ciò devo dire però che l’atmosfera sul set era davvero rilassata e meravigliosa ed ebbi la fortuna di avere accanto a me il meglio dei collaboratori possibili all’epoca. Musiche di Carlo Rustichelli, montaggio di Nino Baragli, fotografia di Carlo Di Palma. Cosa volere di più?
C’è un aneddoto particolare, invece, sul periodo di casting?
Al momento di scegliere le figurazioni e i piccoli ruoli cercavo delle facce da fascisti, naturalmente. Fu così che a Roma arrivò un tipo che, a vederlo, sembrava addirittura uno squadrista! Ci guardiamo negli occhi e, sebbene il direttore di produzione fosse scettico, decisi di prendere lui, lo volevo assolutamente. Arrivammo così in un paesino in Piemonte, a Vercelli, perché la sartoria per gli abiti era molto lontana dal nostro ufficio, e iniziò un brulichio sospetto intorno a noi. Quest’uomo, scoprimmo, era stato in quella zona come fascista e tutti lo avevano immediatamente riconosciuto. Aveva picchiato e ridotto molto male il fratello di un farmacista, se non ricordo male, e per questa ragione subimmo la rivolta nel paese contro di noi. Per fortuna c’era anche un partigiano che conoscevo e che ci ha aiutato a venirne fuori.
In conclusione, crede che il suo film abbia dei tratti di attualità?
Vista la situazione politica attuale direi proprio di sì. In fondo il Marco di Tiro al piccione, anche oggi, potrebbe essere semplicemente un ragazzo che ha fatto delle scelte sbagliata, e ha votato male. Ma non dico chi!
Foto di copertina: Getty Images
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