Ha fatto arrabbiare moltissimo gli americani – o almeno i critici di Variety e dell’Hollywood Reporter – The Leisure Seeker, il film americano di Paolo Virzì presentato ieri in concorso al Festival di Venezia (qui la nostra recensione), che racconta la “fuga d’amore” in camper di una coppia di ottantenni fragili e malati, lui di Alzheimer, lei di un tumore in fase terminale. Si capisce però dalle parole spese che la rabbia nasce paradossalmente dentro quella vocazione al colonialismo, anche culturale, che evidentemente è stata introiettata al punto da aver cancellato la coscienza di sé.
Così il film di Virzì è stato sostanzialmente rimproverato di essere un Mangia Prega Ama all’italiana, cioè un lavoro in cui non c’è traccia degli Stati Uniti e del contesto sociale che ha portato all’elezione di Trump (il film è girato durante la campagna elettorale, attraverso diversi stati), ma solo uno sguardo impacciato e straniero che non supera mai la soglia del cliché, e che per di più mette in bocca ai suoi personaggi una lingua tradotta, cioè un inglese vagamente fasullo.
Sull’ultimo punto non ci sentiamo di discutere, ma sul resto sì. Tanto più che viene preso a pietra di paragone Le nostre anime di notte, il film con Robert Redford e Jane Fonda visto qualche giorno fa qui al Lido, che alla maggior parte della critica europea (e senz’altro a noi) è parso invece patinato e fiacco, adeguato per lo streaming in salotto ma fuori formato in sala.
Ecco, quell’aspetto da tv movie del pomeriggio di Rete 4 (come si sarebbe detto un tempo) The Leisure Seeker non ce l’ha, ma è altrettanto vero che la sensibilità con cui i personaggi vengono raccontati dice molto del suo autore e non avrebbe potuto essere la stessa se a girare il film fosse stato un americano.
I protagonisti Ella e John (Helen Mirren e Donald Sutherland) prendono infatti forma soltanto attraverso il loro passato e in quel passato – così come nel loro presente – la storia e la politica americana non entrano mai, il che probabilmente da quella parte dell’oceano pare un affronto, o quanto meno uno spreco imperdonabile (un principio critico analogo è stato ampiamente utilizzato contro Mine di Fabio&Fabio qualche mese fa).
È come se il film scegliesse più i suoi straordinari interpreti (per altro non americani, Sutherland è canadese e la Mirren inglese) che i fantasmi o la lingua del loro paese, e decidesse di affrontarli unicamente nella sfera dell’intimità, cioè nella forma particolare del loro amore, in cui il cinismo morbido e divertentissimo di Virzì e Piccolo (sceneggiatori con Francesca Archibugi) salta fuori ad ogni giro di trama e quasi ad ogni dialogo, alternandosi alla malinconia per due vite che stanno finendo.
C’è di sicuro una certa indulgenza al macchiettismo (il figlio gay e arrabbiato, la figlia responsabile e comprensiva, il manifestante conservatore che pare uno spaventapasseri, la letteratura come linguaggio intergenerazionale) e un uso degli stereotipi da film popolare e di genere, ma nulla che possa infastidire davvero. Forse parlare di film pronto per la corsa agli Oscar è un po’ eccessivo, pare più un lavoro da sala che da statuetta, ma la sensibilità di Virzì per i ritratti agrodolci, dolcemente tragici, resta intatto.
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