Ci sono tanti modi di costruire un documentario, quello più tradizionale consiste nel seguire una scaletta, cioè nell’argomentare per punti (la vita di una persona, il processo a un imputato, i cicli di un ecosistema) utilizzando materiali di repertorio e altri realizzati ad hoc, soprattutto interviste. C’è naturalmente una contraddizione in termini in questo metodo, il punto di vista del regista emerge non solo – appunto – nel punto di vista, cioè dove e quando si piazza la macchina da presa, ma anche nella scelta di una struttura, nel tempo del film che spesso è diviso in tre atti a beneficio della platea e delle sue aspettative.
Niente di male, riuscire a creare suspense all’interno della forma documentario è anche un valore aggiunto, ci sono casi esemplari recenti (Cartel Land, Searching for Sugarman e The Imposter sono i primi che mi vengono in mente, e poi il più controverso Making a Murderer disponibile su Netflix), ma è un sollievo che esistano autori come Gianfranco Rosi che provano a raccontare la realtà con un approccio diciamo impressionista, cioè immergendosi dentro un contesto – vivendoci per un po’ -, e poi scegliendo un certo numero di persone e posti non come testo dell’indagine ambientale, ma come “agenti chimici”, capaci di attivare la realtà e farla emergere dal niente dei nostri pregiudizi in una composizione non del tutto definita eppure viva.
Dopo il deserto americano degli emarginati (Below Sea Level) e il grande raccordo anulare di Roma (Sacro Gra), Rosi ha vissuto per oltre un anno sull’isola di Lampedusa, in una casetta del porto vecchio, trasferendo qui anche gli strumenti del montaggio. Fuocoammare è l’impressione che questo tempo ha lasciato su di lui attraverso alcune persone che ha seguito, alcune cose che ha fatto e alcuni posti in cui è stato. E la recensione di Fuocoammare può essere poco più di una nota a margine, perché non c’è modo di dire le storie dei suoi personaggi, non sono nemmeno storie, sono frammenti, esperienza.
Vedrete, nel film, Samuele Puccillo, 12 anni, figlio di pescatori che “subisce” il mare, e deve passare le serate sui pontili che ballano per imparare a digerirlo. Che prova a remare, ma viene risucchiato verso i moli, tra le barche grandi. Che ha un occhio pigro, e deve portare l’altro bendato. Che va a caccia con la sua fionda, e poi dal dottore perché respira male.
Pietro Bartolo, direttore dell’ASL locale, che assiste lampedusani e migranti, da trent’anni è la prima idea di civiltà dopo gli sbarchi; distingue i casi gravi da quelli lievi, i vivi dai morti, e ha imparato tutti i modi in cui si sparisce nelle barcacce degli scafisti.
Giuseppe Fragapane, il dj di Radio Delta, che alterna dediche amorose e comunicazioni di servizio vitali per l’isola.
Pescatori, pensionati, donne che cucinano il pesce in pentole che sembrano inghiottirti, tutti pieni di cose da raccontare e suggerimenti senza vanità, di vita vissuta.
E poi il Centro di Accoglienza, per riprendere nel quale Rosi ha avuto un permesso speciale; e, ancora a ritroso, in mare aperto, la nave Cigala Fulgosi, quella che opera il primo soccorso lontano dall’isola, recupera le persone e i corpi, li trascina, li sposta, li ricompone.
In mezzo a tutto questo Rosi riconosce e smonta il folklore, che è poi la vera qualità del grande documentarista. Così restano nel film, setacciati, i desideri e le paure del ragazzino, la stanchezza del dottore, il dolore normale e terribile di tutti, così come il divertimento, che è solo quello che è.
Giorno e notte, il ritmo dell’isola.