Volevo fare il piastrellista
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Volevo fare il piastrellista

Volevo fare il piastrellista

Mi sono scelto un lavoro precario, non è lui che ha scelto me». Non credete mai a chi dice questa idiozia. È troppo faticoso da fare, perché non lo si scelga davvero ogni mattina. Come l’amore vero. Avrei potuto fare qualunque altra cosa: io, ad esempio, da bambino volevo fare il piastrellista. Sarà stata quella passione per i Transformers che non mi compravano o quella per i Lego, che avevano lo stesso destino.
Volevo piastrellare, mettermi lì con la livella, la buiacca e il cemento. E fare le cose per bene. Ecco, quella voglia lì, di fare le cose per bene, non l’ho persa. Poi ho capito che mi mancava un po’ di manualità, la voglia di alzarmi presto e la capacità di aspettare. Aspettare che il cemento prendesse, che attecchissero le piastrelle, che ci fosse perfetto equilibrio tra le piastrelle, una a una, toccare leggermente con la punta del manico della cazzuola per livellarle. Aspettare. E quindi ho scelto il mestiere in cui l’attesa è tutto. Certo. Quando lavora, un attore, lo pagano per aspettare: recitare lo facciamo gratis, diceva qualcuno. Ed è vero. Qualcuno si lamenta ogni tanto, ma non ho mai visto un attore bravo lamentarsi del fatto che stia aspettando. Un set è così: è umorale, imprevedibile, senza logica, soggetto a troppe dinamiche interne ed esterne per poter scorrere senza intoppi. E allora aspettiamo. Ma lì ti pagano, e te lo fai andar bene. Diventa drammatico quando aspetti e non ti pagano. E c’è sempre qualcuno che aspetta qualcun altro che chiami: un attore che aspetta un regista, un regista un produttore, un produttore un finanziatore, un parrucchiere un organizzatore, un elettricista un direttore della fotografia e così fino a che il serpente a furia di mordersi la coda è arrivato alla testa. Ci siamo scelti un lavoro precario per eccellenza, certo. Ma aspettare in camerino è bellissimo. Aspettare davanti a uno smartphone è devastante.
Non ci ripeteva altro, il mio Maestro: «Non diventate attori che aspettano davanti al telefono, che squilli». E a noi ventenni, ci faceva ridere questa cosa: «Figuriamoci, io?». Giuro, li ho visti ridere. E adesso non li vedo, ma non ridono più. Aspettano. Una mail, un messaggio, una chiamata. Un segno. E aspettare adesso è terrorizzante. Perché hanno visto insurrezioni popolari per riaprire le piste da sci e nessuno indignarsi per il loro futuro che si sgretola ogni secondo di più, al pari del loro presente. Perché attorno a loro sentono, distintamente e matura, l’idea che un po’ se la siano cercata scegliendo di fare questo mestiere, precario per definizione. È che alla precarietà siamo abituati. Ma abbiamo inseguito i sogni, li abbiamo visti tramutati in incubi e poi, semplicemente, ci siamo sentiti soli. Soli e spenti. Perché piangere, si può fare anche da soli. Ma per ridere bisogna essere in due.

Brano ascoltato in loop mentre scrivevo:

Sole spento – Timoria

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