Leggi la recensione di Warm Bodies di Giorgio Viaro
Nicholas Hoult, il ragazzino impacciato con una madre hippie di About a Boy, è definitivamente cresciuto. Non solo in senso anagrafico, ormai ha 23 anni, ma soprattutto, dal punto di vista professionale visto che in Warm Bodies è addirittura la star protagonista. Giunto a Roma con un nubifragio, perfetto per un film su un’imminente fine del mondo, con l’umanità ridotta ad uno sparuto gruppo di sopravvissuti, Hoult maniere gentili, giacchetta alla moda e capelli cortissimi, è venuto a promuovere il film tratto dall’omonimo romanzo di Isaac Marion che la Key Films distribuirà dal 7 febbraio in 400 copie. Ad attenderlo, dalle 6 di questa mattina, una trentina di ragazze sue fan sfegatate con cui Hoult si è intrattenuto firmando autografi e facendo foto. Più che un divo del cinema un giovane di buon cuore, lo stesso che dimostra di avere anche nel film nei panni di uno zombie. Warm Bodies, infatti, è la storia di una guarigione portentosa resa possibile dall’amore: a seguito di una misteriosa epidemia, milioni di persone si tramutano in zombie e attaccano gli umani per cibarsi dei loro cervelli, finchè, durante una colluttazione, R, lo zombie interpretato da Hoult, s’innamora a prima vista di Julie (Teresa Palmer). Sarà proprio questo sentimento, ricambiato dalla ragazza, a far scattare qualcosa in tutti gli zombie, desiderosi di tornare a sentire e vivere come tutti gli uomini. Proprio come erano prima. Una strana storia d’amore, quella tra un’umana e un ragazzo zombie che ha subito fatto gridare all’erede di Twilight. Una tesi su cui Hoult non è affatto d’accordo. Leggete perché…
Nel film tu sei uno zombie, uno dei mostri storicamente più d’effetto al cinema. Ma per te chi sono i veri mostri oggi?
«Non so. Però gli zombie per me non sono proprio mostri, ma dei diversi, degli outsider che dentro vogliono solo esser accettati. È vero, R mangia i cervelli, ma non è cattivo e nel film si capisce subito perché le sue intenzioni sono buone: vuole solo avere un contatto con gli umani. In realtà sono solo persone da capire, le loro anime sono candide».
Quando fai finta di mangiare del cervello in alcune sequenze in realtà di cosa si tratta?
«Ah! È un intruglio spugnoso e freddo con dentro pompelmo e pizza. E poi ovviamente un po’ di vero cervello…»
Hai visto un po’ di zombie-movie per affrontare questo ruolo?
«Abbiamo visto un sacco di film, praticamente tutti quelli che avessero la parola “dead” nel titolo! Ma anche cose un po’ diverse con protagonisti dalla mimica e dal linguaggio del corpo particolare come Edward mani di forbice, Lo scafandro e la farfalla, Wall-e. Sono stati una grande fonte d’ispirazione. Ma anche Zombieland, L’alba dei morti dementi».
La storia è autoconclusiva ma visto che il libro ha avuto le lodi di Stephenie Meyer, l’autrice di Twilight, e che i produttori del film sono gli stessi della Twilight saga, ti risulta che ci sia un secondo capitolo all’orizzonte?
«So che non c’è intenzione di continuare. Però oggi si può fare un sequel di qualunque cosa. Il paragone con Twilight non lo vedo molto: in entrambi si parla di strane storie d’amore, ma in Warm Bodies c’è un tono leggero, si prende molto meno sul serio, c’è uno humor e un’autocritica sugli zombie che diverte senza sfociare mai nella parodia. Tutte cose che mancano in Twilight».
I paragoni però scatteranno… sei preparato? Hai visto Twilight, che ne pensi del vampiro di Robert Pattinson?
«Ho guardato qualcosa solo dopo la fine delle riprese. Non mi sento in competizione con Pattinson quindi non ho cercato né di assomigliargli né di stargli lontano. Ho accettato Warm Bodies perché mi piaceva il personaggio di R e sapevo che sarebbe piaciuto anche al pubblico. Ripeto, non vedo troppi nessi con Twilight. Ad esempio R fin dall’inizio vuole stare con Julie perché vuole proteggerla e dimostrarle che c’è del buono in lui. Edward invece prova a stare lontano da Bella perché teme di farle del male».
In passato, il regista Jonathan Levine ci aveva già parlato di malattia e guarigione con 50 e 50. Secondo te il messaggio di Warm Bodies è che la diversità è una malattia da cui guarire?
«No di certo. Noi non parliamo di omologazione ma di tornare a sentire. Gli zombie vogliono tornare ad essere umani. Uno dei messaggi è sforzatevi di accettare le persone per quello che sono e trovate il buono che c’è in ognuno. Il mio personaggio è uno zombie che si sente intrappolato nello stato di zombie e vorrebbe tornare ad essere quello che era prima».
E quali sono gli altri messaggi del film?
«La vera malattia oggi è l’incomunicabilità. Anche se siamo più connessi tra noi, come non era mai successo prima nella storia dell’uomo, siamo più lontani perché troppo spesso la tecnologia si mette tra noi e le cose importanti e finiamo col non parlare più con gli altri».
Dopo questo film ti consideriamo un esperto: che bisogna fare in caso di invasione zombie?
«Meglio avere una pistola a portata di mano! Personalmente proverei a integrarmi con gli zombie e piano piano diventerei un capo banda, o meglio un re degli zombie, quindi seguitemi che vi aiuto io».