White Noise: il rumore bianco del consumismo e la paura della morte. La recensione del film di Noah Baumbach tratto da Don DeLillo
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White Noise: il rumore bianco del consumismo e la paura della morte. La recensione del film di Noah Baumbach tratto da Don DeLillo

Il film con Adam Driver e Greta Gerwig che ha aperto la 79esima Mostra del Cinema di Venezia è approdato su Netflix il 30 dicembre 2022

White Noise: il rumore bianco del consumismo e la paura della morte. La recensione del film di Noah Baumbach tratto da Don DeLillo

Il film con Adam Driver e Greta Gerwig che ha aperto la 79esima Mostra del Cinema di Venezia è approdato su Netflix il 30 dicembre 2022

Rumore bianco White Noise
PANORAMICA
Regia (2.5)
Interpretazioni (2)
Sceneggiatura (2)
Fotografia (2)
Montaggio (2)
Colonna sonora (1.5)

Jack Gladney (Adam Driver), professore presso il College di Blacksmith, è un’eminenza assoluta nel campo degli studi hitleriani in Nordamerica, pur avendo più di qualche problema col tedesco parlato. La sua vita familiare coi figli e la moglie Babette (Greta Gerwig), insegnante di ginnastica e dipendente da un farmaco non tracciato sul mercato, il Dylar, è all’insegna di una quotidianità appassita e ripetitiva consumata nel Midwest, non senza punte tanto di dolcezza quanto di disagio. Ogni certezza, anche la più labile, si sgretola quando una nube si alza da terra verso il cielo e si avvicina minacciosa alla sua abitazione, a causa di un incidente chimico consumatosi poco lontano che porterà tutti a scappare in cerca di riparo. 

Dopo il successo di Storia di un matrimonio, il newyorkese Noah Baumbach è tornato a dirigere il suo attore feticcio Driver, alla quinta collaborazione col regista di Brooklyn nonché la seconda come protagonista, proprio dopo l’encomiabile prova in Marriage Story accanto a Scarlett Johansson. La sfida titanica di White Noise era quella di portare sul grande schermo Rumore bianco di Don DeLillo, romanzo con cui il grande scrittore statunitense vinse il National Book Award nel 1985 e caposaldo della letteratura postmoderna americana, ritenuto per lungo tempo un testo troppo denso, frastagliato e inavvicinabile per essere tradotto con successo sul grande schermo. 

Un banco di prova che Baumbach si è sobbarcato nel periodo di massima riconoscibilità e maturità artistica, dopo una vita trascorsa con profitto a fare il sodale di Wes Anderson e l’aura da autore hipster di commedie brillanti e agrodolci già ampiamente consolidata, oltre che proiettata di recente verso orizzonti più mainstream e corse agli Oscar. La sua sensibilità intellettuale trova nelle pagine di DeLillo un motore immaginativo non indifferente, com’era facile prevedere, ma anche dei limiti e delle zavorre non da poco. 

I tanti paletti imposti da un libro così complesso come Rumore bianco lasciavano sulla carta ampi margini di libertà e d’invenzione che pure sono stati ampiamente raccolti, ma il dover aderire a DeLillo come a una griglia giocoforza inalienabile ha finito col produrre una di quelle operazioni asfittiche in cui sembra che siano le immagini a dover ricorrere costantemente e affannosamente la parola scritta. Con tutte le pastoie del caso e una frammentarietà che, sia nelle incursioni nel mondo accademico che in quelle tra le quattro mure familiari, sa tanto di centrifuga impazzita. 

Abituato a sondare i chiaroscuri ora buffi ora taglienti di famiglie disfunzionali e vite di coppia altrettanto fragili e farraginose, fin dai tempi de Il calamaro e la balena, Baumbach con White Noise, nonostante il dispendio di energie, mezzi, maledizioni e imprevisti che paiono averne costellato l’iter produttivo, ha portato a casa il suo film forse più di compromesso, il più anestetizzato e con le ali tarpate. Chiaramente ci sono di mezzo i detriti del grande romanzo americano, a partire di uno dei suoi massimi punti di deflagrazione e decostruzione com’è Rumore bianco, ma soprattutto siamo nell’America anni ’80 del consumismo più solare e squillante, nella quale i supermarket possono essere eletti a luogo di conforto e rigenerazione dello spirito, e del desiderio infinitamente replicabile. Ciò che manca, tuttavia, è una visione dell’edonismo reaganiano che trovi una sua personale voce sotto la coltre confortevole di un ottimismo surreale e alienante, e che riesca a farsi largo con originalità nelle molte intersezioni tra bizzarrie e misteri e nelle zone d’ombra tra sarcasmo isterico e tragedia famigliare. 

La legittimità e la correttezza filologica di Rumore bianco, rispetto al libro, viene comunque garantita dall’ampio risalto dato alla paura della morte, leitmotiv costante di un adattamento che quando c’è da tirare le somme punta molto su quest’elemento filosofico ma finisce con l’annacquarlo comunque in toni di recitazione e messa in scena molto spesso sfasati. Specie nei duetti tra i due coniugi, in cui è quasi sempre Greta Gerwig, musa di Baumbach, a mancare i giri giusti e a limitarsi a trasferire la malinconia arruffata e dolente di altre sue prove in un contesto che avrebbe meritato uno straniamento di ben altro livello e tutt’altra misura. Senza contare che le danze (quelle vere) sembrano aprirsi davvero troppo tardi, praticamente a titoli di coda già iniziati. 

Foto: Passage Pictures, Heyday Films

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