Lost: perché NON è un capolavoro - Le lacrime
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Lost: perché NON è un capolavoro – Le lacrime

Dopo aver letto lo speciale del regista Fabio Guaglione, un nostro lettore risponde punto per punto con interessanti argomentazioni, infiammando il dibattito sulla serie di J.J. Abrams

Lost: perché NON è un capolavoro – Le lacrime

Dopo aver letto lo speciale del regista Fabio Guaglione, un nostro lettore risponde punto per punto con interessanti argomentazioni, infiammando il dibattito sulla serie di J.J. Abrams

In risposta all’articolo (eccessivamente) entusiasta di Fabio Guaglione (che consiglio caldamente di leggere in generale, ma che è assolutamente necessario leggere per comprendere i punti salienti delle obbiezioni che propongo).

Leggi Le lacrime di Guaglione

Le lacrime

(segue da) Ci sono lacrime e lacrime. Ci sono tantissimi polpettoni preconfezionati proprio per suscitarle, e spesso non si può certo dire che siano dei capolavori. Si pensi alla stagione del cinema melodrammatico italiano (penso al cosiddetto neorealismo rosa). Film assolutamente lacrimevoli, ma non per questo necessariamente degni di nota. La capacità di suscitare un’emozione, il classico nodo alla gola, non può essere considerato di per sé un valore. Spesso, anzi, quella sensazione che ci attanaglia l’esofago è frutto dei più biechi trucchi narrativi. Non voglio con ciò necessariamente assumere alla lettera la posizione di Raymond Carver: «Una volta ho sentito Geoffrey Wolff dire a un gruppo di aspiranti scrittori: ‘Niente trucchi da quattro soldi’. [Questa frase] io la correggerei un po’: ‘Niente trucchi’. Punto e basta. I trucchi non li sopporto. Quando leggo narrativa, al primo segno di trucco o di trovata, non importa se da quattro soldi o elaborata, mi viene istintivo cercare riparo». Lost ovviamente straborda di trucchi. E per lungo tempo non mi sono affatto dispiaciuti. Negli States le serie TV sono chiamate giustamente show. Prima di ogni altra cosa, abbiamo a che fare con l’entertainment e non è certo mia intenzione scandalizzarmi per questo, tutt’altro!

Però le lacrime, quelle che l’ultima puntata di Lost ha senz’altro suscitato, vanno contestualizzate. Stiamo parlando di personaggi che abbiamo amato, che ci sono diventati familiari e con i quali abbiamo instaurato una relazione profondamente confidenziale. A onor del vero, il fatto stesso che questo sia accaduto, è senza ombra di dubbio uno dei meriti della scrittura e della struttura di Lost – come giustamente sottolinea Guaglione – e ovviamente del modo in cui, in tutti questi anni, le motivazioni dei personaggi e conseguentemente il loro arco di trasformazione ci sono stati presentati. Ovvio quindi che le vicende che li riguardano ci tocchino profondamente e tanto più alla fine. E’ inevitabile. Fa sorridere però chi, proponendo un sillogismo piuttosto ardito, ritiene che per il solo fatto che Lost mi abbia tenuto incollato davanti al teleschermo fino alla sua conclusione allora mi sia piaciuto, anzi mi debba essere piaciuto per forza! La tesi sarebbe che altrimenti lo avrei abbandonato prima. Se non l’ho fatto allora mi è piaicuto nella sua totalità, proprio così com’è! Non mi è davvero chiaro questo ragionamento, lo dico senza ironia. D’altra parte io non sono affatto d’accordo con Guaglione sul non dare una chance a delle buone idee, che magari non partono fin da subito con la stessa capacità di Lost di incatenare l’attenzione, ovvero che non partono con il botto (che poi per le major si traduce semplicemente col fatto che non partono con l’audience che ci si attendeva). Per esempio l’idea da cui prende le mosse Flashforward (basata tra l’altro sul romanzo – Avanti nel tempo, nella traduzione italiana – di Robert J. Sawyer), la trovo assolutamente intrigante e degna. Per me la serie meritava assolutamente una seconda stagione e mi dispiace sinceramente lasciare quella storia coì sospesa (per sempre). E non mi sento di dare ragione alla ABC, né a coloro – tra i potenziali telespettatori – che non hanno voluto dare una chance a questa Storia. Il fatto che sia accaduto non implica necessariamente che non avesse delle qualità. Ma torniamo a Lost. Chi è arrivato alla fine, conserva ovviamente in egual misura, se non di più, il diritto di criticare. Tra I libri che ho amato, posso annoverare senz’altro Le avventue di Huckleberry Finn di Twain. Eppure il finale di quel libro non è memorabile. A causa probabilmente della trama di viaggio sulla quale si basa il romanzo, alla fine Twain deve ricorrere a coincidenze e al Deus ex machina per concludere. Una piccola delusione, seppure il resto della storia resti superlativo. Un’eccezione, però. In generale si può senz’altro affermare che il finale di una storia sia fondamentale e solitamente, retrospettivamente, definisce in un senso o nell’altro il nostro atteggiamento nei suoi confronti. Lost, prima di questo finale è stato per me, qualcosa di molto vicino a un capolavoro, nell’ambito della serialità televisiva, ma non solo. Se però ripenso a tutta la vicenda ponendomi nella posizione attuale, ovvero, dopo il finale, il mio atteggiamento nei confronti dell’opera muta decisamente. Per spiegare meglio. Se resto sui singoli momenti, è ovvio che nessuno potrà togliermeli. Le sensazioni che ho provato durante il percorso erano di fatto genuine e il loro valore resta immutato per me anche oggi. L’inizio folgorante della seconda stagione (la sequenza del risveglio di Desmond nella botola, nella prima puntata Man of Science, Man of Faith, sulle memorabili note del singolo di Mama Cas, Make Your Own Kind Of Music) è un momento di televisione insostituibile, come la telefonata tra Desmond e Penelope nella puntata The Constant della quarta stagione. Il modo in cui gli autori nella terza stagione passano dai flashback ai flasforwards è narrativamente sorprendente. Gli altri 48 giorni, la sparizione dell’isola, i singoli momenti tra i personaggi, sono istanti che nel momento in cui sono stati vissuti dal telespettatore per la prima volta, ignaro della direzione, o meglio, consapevole delle infinite direzioni possibili, avevano una forza narrativa senza precedenti (sicuramente sul piccolo schermo!). E’stato così anche per me! Se ricominciassi a vedere Lost da capo, in quei momenti, sarebbe di nuovo così. Ma poi arriva, come una scure che si abbatte con violenza sulle illusoni più dolci, The End. E’ d’obbligo per gli spettatori a questo punto trarre delle conclusioni. Il finale della serie impone una ricostruzione critica dell’opera nella sua totalità e compiutezza. (continua)

Gli altri “capitoli” di Lost: perché NON è un capolavoro

Le lacrime

Gli ultimi minuti

Un messaggio semplice

La teoria spirituale

La teoria scientifica

I punti forti

Il linguaggio

I personaggi

Il binomio fede e scienza

I misteri

Una mania collettiva

L’utilizzo dei media

Let it Go

Vai allo speciale Lost: perché è un capolavoro.

Per conoscere tutto di Lost:

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Alfonso Papa ha frequentato il master biennale in Tecniche della narrazione presso la scuola Holden di Torino. Tra le altre cose ha collaborato con la casa editrice Einaudi in qualità di lettore e ha lavorato su alcuni set cinematografici, tra cui Radiofreccia di Luciano Ligabue e Un amore di Gianluca Tavarelli. Dal 1999 al 2007, prima per l’Associazione Cinema Giovani e poi per il Museo Nazionale del Cinema, si è occupato dell’organizzazione del Torino Film Festival. Attualmente lavora in qualità di production manager per la Film Commission Torino Piemonte. Lo scorso marzo era tra i giurati della manifestazione cinematografica Piemonte Movie 2010.

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